Fermiamoci anzitutto sulla manifestazione evidente
della cultura del prof. Vitale: l’insegnamento. Da essa, per essa, potremo
risalire consideratamente alle idee animatrici.
Quel suo metodo didattico, così tipico e così
efficace, (il prof. Di Muccio lo ricordò nell’elegia alla sua morte):
era
logicamente espressione d’un temperamento, ma il contenuto, l’idea era prodotto
della convinzione dottrinale. Risalendo dunque dagli effetti alle cause, saremo
sicuri di fare induzioni, non congetture.
Come insegnava? Egli non si preparava una certa
lezione da enunziare, spiegare, riassumere, e poi richiedere. L’acutezza
dell’ingegno e la cultura vasta lo ponevano in condizione di attuare alla
perfezione il metodo attivo della pedagogia d’oggi, con lezioni occasionali. Ad
una domanda replicava con una lezione improvvisata, spontanea, svolta non nelle
sue minuzie, ma solo in alcune idee sostanziose, che voleva restassero
impresse. Dall’idea dominante divagava per poco verso altre, tanto per cercarvi
maggiori prove, per fare intravedere altri motivi di sostegno e validità, e poi
tornava insistentemente all’argomento e, di convincente autorità, lo chiudeva.
Semplificava il pensiero e la locuzione difficile, e
li rendeva col gesto rapido, quasi a scatti, senza mai dimenticare quella verve
simpatica e convincente, e che era pure il tocco di grazia, per cui nasceva in
noi la simpatia per li, accanto ad una illimitata stima.
Da noi esigeva molta lettura, la riflessione
giornaliera del diario, la scelta del colorito e del rilievo, e cioè della
proprietà e del valore della parola, non pretendeva ripetizioni o memorie, né
temi svolti come prediche.
S’immedesimava nella spiegazione, nella lettura, e
ci richiedeva di parteciparvi. Eliminata ogni pesantezza, creava così nell’ora
d’Italiano un’ora di sogno, sogno per noi, ma che per lui era solo il trionfo
di ciò che è spirituale e superiore, comunicato con arte. Ma allora, guai a
interromperlo!
Credevamo che rimproverasse perché nervoso, dopo s’è
capito che era per disgusto, per orrore di quella contaminazione che una
distrazione, un’inframettenza grossolana portava nell’alta regione cui ci aveva
levati, sporcandola.
Dava quando sapeva, senza misura alcuna, con la sola
restrizione di dover ridurre, perché parlava a ragazzi. Dava molto ed esigeva poco.
Convinto com’era di quanto diceva, era sicuro di averci comunicato la sua
convinzione. E perciò a lui il dettaglio sfuggiva, e a noi non lo chiedeva. Gli
bastava che avessimo corrisposto nell’essenziale. Voleva comunicarci una
passione, ecco, più che un certo numero di idee.
Logicamente una spiegazione, una definizione, non
era mai la stessa. Egli non la sapeva a memoria. E c’era sempre del nuovo in
quanto diceva. La sua paura era di cristallizzarsi e perciò leggeva tanto, e si
aggiornava, e poi rifletteva e trovava da sé, e voleva, in piccolo, lo stesso
spirito d’indagine e di riflessione in noi. Né la limitatezza mentale di un
alunno si sarebbe trovata a suo agio con lui. Bisognava capirlo. Capirlo nella
mentalità elevata, aperta. Solo così si afferrava il senso vero di certe sue
espressioni, e certe preferenze, certe commozioni.
***
L’uomo
che insegnava così, manifestava oltre che mentalità e tendenze, anche la
consuetudine di studi e il patrimonio culturale.
Ecco
le sue idee basilari:
1.
Cristianesimo
teologico paolino.
2.
Francescanesimo.
3.
Sociologia
cristiana.
4.
Teorie
estetiche crociane.
Da ragazzi ci sfuggiva logicamente la genesi di ciò
in lui. L’abbiamo capito quando, nel Vangelo e nelle lettere di San Polo, come
nelle encicliche di Papa Leone XIII, e sulle opere estetiche e storiografiche
di Benedetto Croce, le abbiamo ritrovate.
Pur rinnegando alcuna elaborazione posteriore, certo
il Vangelo e S. Paolo erano il pane che consumava e che offriva. Insisteva tanto
vivamente sul “corpo mistico” oltre che nell’aspetto soprannaturale, anche in
quello sociale. S. Francesco, tipo dell’attuazione estetico – morale del
Vangelo, rappresentava per lui quello a cui potesse tendere l’anima
naturalmente cristiana. Ma ne ho parlato avanti, e non mi prolungo. Torniamo ai
suoi studi.
Se nell’insegnamento egli trascurava il preciso e
trito dato storico, pur di metter noi soltanto nello stato di contemplazione
estetica, è evidente, e lo diceva, che non preferiva la critica storica
tedesca, ma senz’altro quella estetica che, preparata dal Vico, attraverso De
Sanctis arriva a Croce.
In questa scia troviamo Vitale. Metter da parte ogni
giudizio sulla forma pura, l’anatomia delle parti, ammirare la bellezza del complesso
vivo, ecco quanto raccomandava, e cioè quanto sentiva. Ho già detto che
rinnovava, mai ripeteva. E anche questo corroborava col Croce, dato che anche
per lui l’arte era momento irripetibile di vita.
Se certamente correggeva l’errore sintattico, non
esauriva l’insegnamento nella “bella forma”. Era nemico della rettorica. Niente
enfasi o studiato abbellimento, ma idea sentita, proprio attraverso la
naturalezza dell’espressione.
La stessa idea crociana (e veramente hegeliana)
della storia lo sorreggeva nell’interpretare e giudicare i fatti. Spesso citava
la Storia d’Europa del pensatore abruzzese.
Anche per lui la storia era progresso dell’idea di
libertà attraverso trionfi e sconfitte, superando le dittature, momenti
necessari che rendono irresistibile la nostalgia della democrazia.
E il suo cuore che batteva tanto palesemente per
l’ideale democratico, l’aveva spinto, come si vedrà, anche alla concreta azione
politica, ma non con vieto spirito di clientela, non per l’arrembaggio di
grasse mangiatoie, no, unicamente per moralizzare la politica. E perciò, di fronte
a situazioni corrotte, tuonava con violenza estrema, mortificando anche, e
giustamente.
Punto ancor più delicato a valutarsi è la sua
posizione filosofica. Non era proprio uno Scolastico. Siamo lì. La sua indole
dinamica, sentimentale, attuale, avversa al sillogismo, lo faceva propendere
piuttosto per S. Agostino, per una filosofia nelle cui attuazioni poneva la
convinzione. Pragmatismo? Certo, era un ammiratore di Papini, ma non è il caso
di lavorare di fantasia su quanto non sappiamo. La filosofia non era comunque
il punto focale del suo ingegno emotivo (è sintomatico all’Università il “20”
in Filosofia teoretica, di fronte al “30 e lode” in Italiano.
E come si spiega l’influenza delle idee del Croce?
Si era incontrato con esse, e vi aveva aderito, perché non subiva niente, e non
giurava su nessuno. Si spiega in due modi: psicologicamente era predisposto a
farle sue.
Storicamente non dimentichiamo che negli anni della
sua seconda formazione, 1905-15, predominava l’idealismo e la storiografia pura
della libertà, e il pensiero storico, respingendone l’antitrascendenza. Moderno
nel fatto, ma ancorato ai principi trascendenti del Vangelo. È che certe idee
si unificano in una sintesi superiore solo nelle persone d’ingegno.
***
Prodotto
dell’incrocio fu la tesi di laurea (che meritò un “110 e lode”).
Tratta di “Lo spirito filosofico nei canti d’amore
dei poeti del Dolce Stil Novo”, e fu discussa nel Giugno 1910. È stato un godimento
leggerla, e ne ringrazio il gentile Rettore Magnifico di Pisa, anche per il
frutto che ne ho ricavato. È fra storica e personale. Si vede anzitutto il
lettore di gran respiro dalla bibliografia immensa, si nota il continuo
riferimento teologico, si avverte – ed è il costante, eterno Vitale, –
l’accantonamento del simbolismo poetico, aspetto deteriore della “bella
scuola”. Nel primo dei quattro capitoli appare il suo compiacimento innanzi
alla moralità dell’amore. Nel 2° è trattato il tentennamento di quei poeti,
evitato solo da Dante, fra vita attiva e contemplativa, e appaiono quelle sue
definizioni che tanto lo distinguevano: “non sono le teorie che plasmano
l’uomo, ma l’uomo che plasma le teorie”, e altrove “è l’uomo che elegge fra i
molti, il sistema conforme alla propria mentalità e alle proprie esigenze”. Nel
3°, più storico, espone “il gravame del medioevalismo filosofico sulla poesia,
e nel 4° c’è l’indagine del polisenso in poesia, finché si chiede (non senza un
certo dramma); come dall’interpretazione allegorica “che vegeta sotto il freddo
sole degli Scolastici… venne la lussureggiante vegetazione poetica?”. La tesi
ha il merito, fra l’altro, di mostrare come una preparazione teologica possa
introdurre in modo sistematico e comprensivo alla domanda se l’allegoria, il
simbolo, sia separabile dall’intuizione poetica, se in arte può esistere un
doppio fondo, risponde crocianamente. E, salvando solo Dante, ridimensiona il
Dolce Stil Novo, riconoscendogli in poesia un valore espressivo, ma ben diverso
dal monismo poetico moderno.
Sarebbe inconcepibile il prof. Vitale, se non si
accennasse alle sue vedute cristiano-sociali. Furono sempre ortodosse, anche se
di avanguardia. Le abbiamo ritrovate limpide, in quel miracolo di rinnovamento
che è la dottrina emanante da Leone XIII. La Chiesa, nelle sue posizioni di
adattamento alla società si assunse il grande compito dottrinale, spianando la
via ai successori. Ci interessa ora il campo sociale, per riconoscere dal
pensiero leoniano, le direttive dell’Opera dei Congressi, le idee del Toniolo,
e quindi del prof. Vitale.
La Rerum novarum (1891) stabiliva le
direttive della convivenza cristiana, incoraggiando le associazioni operaie,
l’intervento dello Stato per proteggere la dignità del lavoro e additava nella
soluzione della questione sociale, non la sola economia, ma la morale e la religione.
La “Nuntiasti Nobis” (1884), e la lettera “Dall’alto” (1890)
incoraggiavano l’apostolato dei laici e l’Azione cattolica; la “Graves de
communi” (1901) raccomandava al clero di andare verso il popolo, e
stabiliva la natura e i veri fini della Democrazia cristiana; la “Sapientiae
Christianae” (Gen. 1900) additava ai laici le vie dell’apostolato. In
questo programma è ritratto Vitale.
Con Pio X, l’applicazione portò inevitabilmente a
contrasti. Il Saugnier nel suo “Sillon” s’era spinto ad una forma eccessiva
di democrazia, e i Papa condannava il Sillonismo; il Modernismo, per troppo
adattare il “Credo” al progresso moderno, stava portando la fede
all’agnosticismo kantiano, e fu condannato con la “Pascendi” (1907), e
la “Lamentabili” (1908); anche l’Opera dei Congressi stava deviando con
Murri ecc., e anche qui l’intervento deciso del Papa, e lo scioglimento.
Lavoreremo ora di fantasia? No. Vitale, ben diretto
dal suo piissimo maestro, seppe mantenersi lontano dagli eccessi, e permanere
sinceramente nell’ovile da dove altri uscivano, senza per questo rinunziare
alla battaglia. L’origine delle sue idee sociali è manifestamente nell’autorità
della Chiesa. Il Toniolo gli scriveva (lett. 24 sett. 1911): “…negli stessi
indirizzi e principi sociali, la verità e le sue benefiche conseguenze pratiche
si trovano sul cammino diritto che ci viene dalla Chiesa e dal Pontefice…”.
Accusato di Modernismo, quello sociologico, fu difeso e scagionato dal vescovo
Caracciolo, e giustamente dunque.
Giacomo Vitale Personaggi
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