Museo - Summary

 

Domenico Loffreda

Sannio Pentro Alifano, 2001, pp. 79-84

Testa di Venere reperto dalla necropoli di S. Gregorio Matese

 

Anche così ridotto, il reperto si fa ammirare per la classicità della forma e della struttura, e per la sua unicità tra gli oggetti museali in area alifana. Vi sono, in quella raccolta alifana, altre teste femminili che attraggono per i caratteri che le distinguono, più vicine idealmente, forse ai prototipi femminili sanniti che le hanno ispirate, qualcuna riprodotta nel Quaderno di Nassa, pure esse presso il Museo Archeologico di Napoli, dove si conservano. È auspicio che tutti ritrovino, quanto prima, sistemazione idonea e, soprattutto, sicura, nella sede originaria di Piedimonte Matese o nel nuovo museo di Alife.

Oltre la scarna classificazione e misure, della testa della Venere si sa solamente che è stata rinvenuta a S. Gregorio Matese. Dove? Alla Serra S. Croce il luogo della necropoli? Nei pressi della cappella, già restaurata, una prima volta nel 1709? Nella valle di Nocennole? O altrove? Ciascun luogo suggerirebbe risposta diversa. Se fosse stata trovata nei pressi della cappella, si sarebbe potuto pensare ad una scelta di quell’altura, per porvi un sacello, quale da sempre area votata al sacro. Ma non escluderei la necropoli come luogo del rinvenimento: quell’importante residuo, se la statua era andata distrutta, è possibile che vi si sia voluto deporlo nella tomba d’un caduto di alto rango. Se ritrovato in altra area, si potrebbe congetturare anche la esistenza remota di un luogo abitato.

Come che sia, si può fare qualche supposizione, non più di tanto. Si può leggere nell’usura del marmo quali siano stati gli agenti che hanno deturpato il naso, la bocca e il mento, e quale oggetto contundente abbia scheggiato il capo al di sopra della fronte, interrompendo la stretta fascia che trattiene i capelli, cerchiati a loro volta da corona d’alloro, mossi ma accortamente raccolti sulla nuca, lasciando scoperto mezzo orecchio. Nell’insieme, volto e capo si ammirano con piacere. La struttura e la compostezza classica sono molto evidenti. Quel volto, molto probabilmente, è quel che ci rimane di una statua del periodo aureo della scultura greca, o di una copia in marmo di epoca imperiale: in questo caso andrebbe escluso il rinvenimento in una delle tombe della necropoli.

 

 

 

 

 

 

 

La ricomposizione del viso operata dal mio giovane nipote Andrea, studente liceale, così come poteva, su quello butterato dal tempo, sembra darci la verosimile immagine di quel volto.

    All’altra domanda, quando la statua della Venere sia potuta giungere sul monte, probabilmente è più facile rispondere con una certa attendibilità, conoscendo dei Sanniti la mobilità di portarsi non solo nelle non lontane località campane, già ricche di ogni arte ellenica, ma fino in Sicilia che ne era ancora più ricca. Da quelle lontane campagne militari, riportare compensi e prede o un acquisto, non doveva essere una novità. Quella statua poteva essere o l’una cosa o l’altra o altra ancora, ossia la scelta di un comandante che abbia voluto portare con sé, alla casa sui monti, il ricordo d’un oggetto sacro, artisticamente bello. Non una statua qualsiasi, ma quella di Venere, che è la dea più nota e la più vicina al cuore d’ogni uomo e di ogni donna.

    Una Venere, statua di marmo, a fresco, olio su tela, ed ogni altra tipo di riproduzione, si associa all’idea del bello femminino, che è fascino, attrazione, piacere e bellezza. Perché la dea non avrebbe dovuto fare volgere a sé, per il piacere del bello, lo sguardo anche dei Sanniti, anziché sempre e solamente ai loro belli ed aspri monti e alle armi?

   E’ quanto può essere detto da un non esperto, ma che guarda e gode.

   Anche la testa della Venere ha bisogno d’altro studio più professionale ed accurato.