Museo - Summary

 

QUADERNI DI CULTURA DEL MUSEO ALIFANO

XI

 

DANTE MARROCCO

 

MONSIGNOR DI GIACOMO

Un Vescovo nel Risorgimento

 

PIEDIMONTE D’ALIFE

Tipografia “La Bodoniana”

1963

 

 

 

Due parole d’introduzione

 

Le rivoluzioni sono cozzo di mentalità e mutamento di istituzioni. E i tempi in cui avvengono sono assai difficili ad essere seguiti e, peggio ancora, regolati da chi dirige. Il popolo si divide subito in conservatore e innovatore, con rischio evidente dei pochi che capeggiano, ma quasi senza conseguenze per le masse che si limitano a discutere e mormorare. Chi invece è a un posto dirigente trova difficile e pericolosa ogni presa di posizione, e riduce generalmente la propria attività ad una moderazione prudente, e soprattutto umana (quella che non sbaglia mai), in attesa di eventi chiarificatori e determinanti.

Più che un burocrate si trova in tali condizioni un vescovo, data la sua funzione ispiratrice e correttiva, non coercitiva. È il caso del vescovo Di Giacomo, che brevemente si vuol ricordare. Egli si trovò a capo di una diocesi quando la rivoluzione italiana, condotta per verità con mano inguantata dalla Dinastia sabauda e dalla Destra cavouriana, cancellava le antiche divisioni territoriali, sconvolgeva gli antichi ordinamenti, e preparava le mentalità nuove. Il vescovo, pur colle sue idee personali non doveva scontentare alcuno, doveva rimanere il maestro di tutti, evitare il peggio per tutti, moderare l’invelenito vincitore del momento… Ci riuscì il vescovo di Alife? Gli animi accesi non vogliono sentire ragioni opposte alle loro, e vorrebbero chi dirige, chiaramente dalla loro parte, e perciò ne ingrandiscono una parola o un atteggiamento e ci vedono un’adesione o un tradimento, una mentalità favorevole o nemica… La cessazione dei fatti, l’evoluzione dei tempi faranno riposare gli animi, determineranno ricordi e definizioni più oggettive, e più blande… Poi il tempo e la morte confonderanno e annulleranno fatti e ricordi, e anche di un vescovo come il Di Giacomo, moderatore o traditore, umanitario o corrotto, non rimarrà più nulla per gli uomini. Altro rimane, ma non è per le generazioni che sopravvengono, che corrono fra interessi e concupiscenze verso l’estinzione ingloriosa di una vita insignificante… Divagazione filosofica che era necessario premettere al ricordo di un uomo che fu ammirato e odiato, ma soprattutto violentemente e superficialmente discusso.

 

 

Notizie biografiche

 

Prima del momento culminante, l’episcopato e gli anni decisivi intorno e in seguito al ’60, le notizie non sono molte né particolareggiate.

Gennaro di Giacomo nacque nella capitale del Regno mediterraneo il 17 settembre 1796, da gente onesta, ricca di quella verve tipicamente partenopea, che accompagnò per tutta la vita il vescovo di Alife.

Era appena fanciullo, e fu chiuso nel seminario di Gaeta, ma una malattia lo costrinse ad uscirne. Era il tempo non certo lieto della seconda occupazione francese di Napoli. Per ragioni non chiare, la famiglia si trasferisce a Roma, dove Gennarino continuò i suoi studi nel collegio romano d dove avevano sfrattato i Gesuiti. Nel 1808 i Di Giacomo tornano a Napoli, e quel seminario minore accoglie il nostro adolescente[1].

Gli studi e lo sviluppo mentale continuano. Nel ’14 vince il concorso per esami, e viene ammesso al “Pensionato normale”, un seminario di futuri docenti, geniale istituzione del ministro conte Giuseppe Zurlo. Nell’istituto s’imparava per insegnare, e la metodologia dell’apprendimento era applicata in modo da rendere il discepolo capace di spiegarsi e spiegare, non solo di ripetere. Passò al seminario maggiore, e colla dispensa fu ordinato sacerdote nel 1820. La dispensa riconosceva una forma mentis ormai matura: già da quattro anni il Di Giacomo aveva brillantemente discusso una tesi di filosofia.

Ormai datosi all’insegnamento, insegnò Rettorica per un triennio, 1827-30, nel seminario arcivescovile; al ’30 al collegio militare della Nunziatella, e v’insegnò Geografia e Storia patria, ed eccolo per due anni, dal ’32 al ’33, sostituire alla Regia Università il prof. Caterino, sulla cattedra di Diritto canonico. Dal ’33 al ’36 è Lettore di Poetica all’Arcivescovile. La sua cultura è vasta e profonda, ma ad un certo momento il professore scende dalla cattedra e va fra il popolo. Nel ’36 è parroco di S. Maria della Rotonda, parrocchia importante, nel ’44 è parroco del Duomo e canonico. Nel ’44 lo troviamo fra gli amministratori dell’Ospizio di S. Fede al Pallonetto di S. Chiara[2]. L’uomo preparato per lo studio e l’apostolato, è preconizzato vescovo di Alife nel 1848, e risiederà a Piedimonte, capoluogo d’importante distretto in Terra di Lavoro.

Era noto alla popolare Corte di Napoli, dato che s’era distinto nel ’37 durante il cholera Morbus. Era conosciuto personalmente da Re Ferdinando II, presso cui aveva facile accesso. Benemerenze umanitarie, attitudini di governo, cultura, spinsero la Corte a proporlo alla S. Sede per vescovo.

 

 

Dal 1849 al 1860

 

La diocesi di Alife contava nel 1854 sulle 26.000 anime in 13 Comuni e 17 parrocchie, 190 erano gli ecclesiastici (e di essi 80 a Piedimonte), 92 i religiosi (80 a Piedimonte in due comunità francescane), 57 le religiose tutte a Piedimonte in due comunità benedettine. Cessate dal 1807 le più antiche comunità dei Domenicani, Celestini e Carmelitani, il vescovo aveva a disposizione un clero secolare numeroso e vario, cui affidare la cura delle anime, e fra cui scegliere i suoi collaboratori.

Dopo circa nove mesi di sede vacante per la morte del nobile e pio vescovo Puoti, Gennaro Di Giacomo è nominato vescovo con biglietto del ministro segretario di Stato Principe di Torella del 7 Ottobre ’48 (in nome del Re), e il 22 Dicembre è preconizzato da Papa Pio IX, profugo a Gaeta. Il 19 marzo piglia possesso.

Notizie su di lui, attinte personalmente da sacerdoti ora scomparsi e da storici locali non avrebbero potuto darci un Di Giacomo nei particolari più vivi, come invece abbiamo avuto la fortuna di avere, leggendo un voluminoso manoscritto della biblioteca del Seminario.

È anonimo, ma dallo stile, dai gusti, dalle devozioni l’autore appare canonico di S. Maria Maggiore in Piedimonte. Come poi il volume sia stato ritrovato in casa privata in S. Angelo, non si può dire.

Ho letto il manoscritto guidato dalla critica “psicologica”, e così, immedesimandomi nella mentalità conservatrice del cronista e in quella innovatrice del Di Giacomo, sono giunto alle seguenti conclusioni:

  1. di accettare in linea di massima i fati in sé, come sono raccontati;
  2. di non accettare quasi mai l’interpretazione che il cronista ne dà, essendo dettata da preconcetto ed astio;
  3. di far balzare dalla cronaca un Di Giacomo così dimensionato: non era un santo, era un uomo di cuore. Non era fine e compassato, era colto, ottimista, pratico, nervoso. Era l’uomo che scrollava un passato stilizzato con metodi bruschi, che anticipava una mentalità nuova urtando senza tatto quella antica, che per eccessiva, napolitana disinvoltura a lui congenita, dava scandalo a formalisti e timidi… Tale lo vedremo fino al 1860. Poi, l’età, e soprattutto l’ambiente mutato lo modificano.

Seguiamo senza commento la cronaca, almeno nei punti salienti.

 

 

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Ribelle alle convenienze e spirito caustico si mostra a Ciaiazzo innanzi agli eccessi di saluti riverenti, il 19 Marzo ’49: “Si muore anche oppresso da gentilezze”. In diocesi alterna solenni Te Deum per gli avvenimenti ufficiali e riunioni di canonici, sottili pratiche di Curia ed eccessivo dinamismo per funzioni in Piedimonte e dintorni, a evasioni dal cerimoniale che danno all’occhio, a intervento diretto e non misurato nello svolgimento delle cerimonie… Ma seguiamo il diario.

Già dal ’49 lo vediamo ingolfato nelle mansioni della sua carica, e perciò riceve a Piedimonte due cardinali. Caggiano in Agosto, e Cassano Serra in Novembre. Pure in Novembre è a Napoli, alla Conferenza episcopale, ed è lui, insieme al De Luca vescovo di Aversa, a presentare a Caserta a Re Ferdinando II le deliberazioni dei vescovi. In Settembre già era stato nella capitale presso Pio IX che si tratteneva a Portici… Il 6 Luglio ’52, Alife è separata da Telese. Di Giacomo sceglie Piedimonte, capoluogo di distretto. Lì va Mons. Luigi Sodo di tempra differente, legato all’antico, rigido, e i due non simpatizzano.

 

 

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Inutile dire che cade in errori giuridici che gli saranno rimproverati. A proposito di pagelle di confessione e di concorsi alle chiese collegiate, provoca un ricorso al Nunzio Apostolico a Napoli e alle Congregazioni romane. Ricorrono i canonici di Piedimonte, Vallata e Castello, e nell’Aprile ’54 ha torto. Il 10 Aprile arriva plico dalla Congregazione del Concilio: quattro dubbi, quattro risposte. 1) nella collazione dei canonicati si segua concorso. 2) lo stesso per la reintegra nel diritto di scelta 3) si sottopongono al Papa le nomine fatte durante la lite presente (Pio IX approva). 4) i canonici così nominati possono mantenere la confessione nel distretto della parrocchia. Sono “curati” ex primaeva erectione.

Qui Di Giacomo la fa più grossa. Il 26 Maggio ’56 scrive al Ministro degli Affari ecclesiastici: chiede di essere sentito prima che il Governo di l’Exequatur. Apriti cielo! Aspra rampogna del Nunzio. Vuol dunque fermare la S. Sede? Nell’Ottobre un richiamo segreto di Pio IX… E il Papa non dimentica. In Dicembre, ricevendo Mons. Sodo, lo scambiò per vescovo di Alife: “Monsignore. Ella inquieta con i Suoi Capitoli”. Il Sodo rispose che l’affare era col vescovo di Alife, e non con Cerreto, ora diviso.

 

 

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Nulla dice l’astioso cronista sul dogma e sulla religiosità del vescovo. Benché non fosse intervenuto a Roma alla proclamazione, egli fece nel marzo ’55 festeggiare il dogma della Immacolata in tutte le chiese diocesane. L’accusa di “giansenista” riguardava l’opposizione a “giusta e sana sentenza” della S. Sede nel campo giuridico.

Passando ad indicare la sua religiosità, non negheremo una devozione centrale in lui nell’Eucarestia (e allora si chiamava Quarantore), che egli volle in ogni chiesa. E istituì particolari funzioni; le tre ore di Agonia all’Annunziata nell’Aprile ’58; e modificò l’itinerario dei sacri cortei oltre il ristretto ambito parrocchiale, e ad essi volle la partecipazione di tutto il clero, ma intanto urtava contro diritti e consuetudini … “Signore, dà lume a tutti!” commenta disperato il cronista.

Si deve a lui il battesimo dell’ultimo israelita della giudecca di Piedimonte, e la conversione di alcuni svizzeri zuincliani della grande filanda Egg pure in Piedimonte. Fu aperto con questo industriale che gli donò perfino del terreno per ingrandire la vicina S. Lucia. E si preoccupò (e l’ottenne nell’Ottobre ’58), per una cappella nel carcere distrettuale.

 

 

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Aveva spirito di carità cristiana, anche se guastata da certi modi di agire apparentemente grossolani. Certo dava moltissimo. Impegnava perfino il pastorale d’argento coi vicini d’Agnese! Il 13 Settembre ’57 c’era stata l’alluvione, e col P. Borghi organizzò i soccorsi. E per aiutare i terremotati della Basilicata organizzò collette fra i parroci, e mandò ben 400 ducati e nel Marzo ’58 a Palazzo ducale in Piedimonte attuò un’accademia, e con un suo discorso e il canto dello Stabat del Pergolesi, avendo stabilito un’entrata di 30 grani a biglietto (ne regalò 40 ai canonici a sue spese), fece altro denaro. Il burbero apparente non dimenticava di visitare i sacerdoti infermi (“Polvere agli occhi del pubblico” dice il cronista).

 

 

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Finezza però non ne aveva. “Quando si muove quella bestia!” disse il 14 Maggio ’55 di un venerando arcidiacono che al Pontificale stentava a muoversi. Al solito seminarista che sbaglia una certa genuflessione: “Possi essere ucciso!”. “Rompetevi la nuga (sic) del collo!”. Frasi che, pur non avendo valore letterale, tradiscono però l’origine popolana. Il 13 Luglio ’56 si riposa nel parlatorio del monastero di San Salvatore “facendo ivi un mondo di celie indegne del suo carattere e solo sopportabili ad un facchino napolitano”. Lo dice il cronista. Chiassate violente se i chierici sbagliano “una piccola cosa nell’incensazione”, e scatti come: “Mi pento di avervi dato la tonsura!”. Minaccia, grida, ma poi manda a vedere gli spari e permette in Seminario, di sera, i giochi dei bussolotti.

 

 

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Un uomo così fatto non poteva che preferire i giovani ai vecchi. Ed era il giovane clero che voleva vicino, e del quale un gruppo locale, spinto da lui, frequentava il seminario nazionale di Napoli. “È livore sempre costante” verso le collegiate, dice l’anonimo. E svolge le sue funzioni a preferenza nelle chiese dei due monasteri, nelle cappelle, dovunque, e il 1° Marzo ’59 anche nella cappella del Palazzo ducale “cosa che non si vide mai negli stessi tempi del governo baronale”.

Umilia i canonici col farli venire alle cerimonie come semplici preti, in nero, senza insegne, e sono cerimonie ufficiali, e i vecchi, pomposi sacerdoti devono andare “potendosi attaccare di liberalismo in caso di negativa”.

 

 

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Tipiche le sette paia di calze, le adeguate scarpe a cassetta, e il tipico “còppolo” sulla testa. Non era un conformista, e che non lo facesse per mostra ce lo assicura la sua ribellione alle convenienze sociali. Incurante di orari nelle confessioni e visite, incurante di mantenere distanze, l’8 Aprile ’56 amministra un battesimo in casa Russo, e “va ai complimenti in casa di un bottegaio!”. È la vigilia di S. Antonio, e si porta in S. Salvatore a preparare per il 13. “Ivi al solito, depone il carattere episcopale, e fa il facchino, il sacrestano, e qualunque altro ufficio”. “La dignità episcopale deve ispirare devozione e raccoglimento”, ma in Di Giacomo “sembrava una vera forma di commedia”.

Questo inguaribile ottimista ammette perfino a cantare in Seminario per San Silvestro “una filarmonica di giovinotti in tutte le camerate, facendo loro un complimento di doni e rosolio”.

Ma come reagiva il pubblico alle estrosità del vescovo? Si scandalizzavano, o al più rimanevano a bocca aperta. Quando si trattava di scegliere fra Piedimonte e Cerreto, ci fu una sottoscrizione affinché restasse a Piedimonte. Ebbene molti si rifiutarono sottoscrivere.

Vera sommossa di popolo ci fu ad Alife per la sostituzione della statua dell’Immacolata, il 18 Maggio ’58. Campane a stormo, pietre, arresti… Di Giacomo si premurò che gli arrestati uscissero, ma ci rimase male, specie cogli ecclesiastici. Battezzò la nuova statua la “Madonna del rifiuto”, e si astenne per parecchio tempo dall’andare ad Alife.

 

 

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E in politica? Dal manoscritto appare solo una piatta devozione al regime. Te Deum in tutte le occasioni, partecipazione a tutte le cerimonie. Nel Marzo ’53 fa gli Esercizi spirituali alle Guardie d’onore del Re, prende viva partecipazione con discorsi e lapidi, e indirizzo di omaggio per l’attentato dell’8 Dicembre ’56 a Re Ferdinando II. Inutile dire che pontifica alla cerimonia del priorato perpetuo a Re Ferdinando[3] . Il 2 Giugno ’59 ordina preghiere per il viaggio della Famiglia Reale e il matrimonio dell’Erede Duca di Calabria, e anche stavolta iscrizioni “…felicibus firmat auspiciis”, e funzioni di ringraziamento. Così riceve anche il cavalierato dell’Ordine di Francesco I. Inutile parlare delle cerimonie di suffragio alla morte di Ferdinando II, messe, trigesimo, corte, iscrizioni… Questo ci riporta il manoscritto. Ma da altre fonti sappiamo invece del suo cattolicesimo liberale, per cui a Re Ferdinando che gli chiedeva se poteva abolire la costituzione data per il cattivo uso che se ne faceva, rispose “non potersi ciò fare in niun caso”[4]. Il “niun caso” nasceva anzitutto da quella pedagogia non rigorista, che attende il progresso non dal precetto ma dall’esperienza, e derivava pure chiaramente dall’ideologia liberale secondo cui una costituzione, anche se concessa, è legge “fondamentale, perpetua e irrevocabile” se non nel dettaglio certo nella essenza, perché ormai ha riconosciuto la sovranità nella Nazione. Ma era vescovo e non rivoluzionario irresponsabile. Attese perciò il maturare degli eventi, ossequiente nel fatto al Principe assoluto, chiudendo nell’animo l’aspettazione dell’avvenire. Poteva forse sbracciarsi meno.

L’osservanza verso la monarchia non gl’impedì certo di essere indipendente di fronte ai funzionari. Aveva stabilito di fare in Alife la processione di S. Sisto, quella commemorativa, la sera del 10 Agosto, urtando contro un decreto che vietava processioni pomeridiane, e al Sottintendente che glielo faceva notare rispose seccamente che le processioni erano di competenza sua.

 

 

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Come trattò il popolo? Dice il cronista che il 1° Marzo ’56 ad Alife “non arrossisce a mangiare in casa di V. che è un semplice massaro di campagna, umiliando così sempre al dignità episcopale”, e nel Settembre successivo “va ad Alife ad avvisare per gli esami alcuni figli di canapinari”.

La novità di un vescovo che va a piedi, che va a benedire le nozze di borghesucci, dette all’occhio, e non certo favorevolmente. Ma Di Giacomo non era un demagogo. Continuò indifferentemente a frequentare palazzo ducale e le masserie di Alife, a urlare a volte in istrada per le prolungate soste di una processione, e a recarsi in ferraiolo violaceo alle cerimonie.

 

 

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Come temperamento egli mostra chiaramente l’insofferenza, e perciò una latente neuropatia, se dobbiamo credere all’anonimo. La maniera forte col clero, fa dire a questi: “L’animosità fa sacrificare la dignità ed avvilirla”. Il Giovedì santo del ’56 alla funzione dell’olio santo, fece una chiassata tale che i fedeli esterrefatti dissero: “È olio del diavolo, non santo!”. E duole trovare in lui anche comuni convenienze, espressioni non convinte. Così del vescovo Molfa di Boiano da lui prima invitato a restare dice: “Benedetto Dio che è partito”.

Sicché animosità, insofferenza, instabilità – se di deve stare alla minutissima, velenosa cronaca – sono gli aspetti, le manifestazioni deteriori del suo carattere non abbastanza riformato dallo studio e da una vita che avrebbe dovuto essere di pietà.

 

 

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Ma dove l’accantonato canonico si diverte a pungere, e fa davvero, è sul lato morale. Non ha tutti i torti in quanto il Di Giacomo colla sua noncuranza, la sua persistenza, le sue “rivoluzioni di metodi” lascia campo alla critica. Ed una tradizione orale popolare, di quelle al solito che credono al sentito dire, e lo attestano per vero, lo confermerebbe. Le confessioni sono troppo lunghe, e riceve dalle monache penitenti, limonate e sportellini, “come S. Benedetto dal corvo!”, e poi il 12 Gennaio ’55 s’intrattiene in parlatorio nel monastero, fino a due ore di notte[5] “Misericordia di Dio!”, ed assicura che ha nominato per confessore ordinario un canonico di Alife, così può confessar le suore che vorrebbero scegliere liberamente tra vecchi canonici, e invece sono asfissiate da lui. E lo sportellino sarebbe niente. Accetta due mitre nel suo onomastico, e due candelieri d’argento… Né il diligente osservatore dimentica l’espressione triviale con cui i seminaristi qualificano qualcuna fra le più assolute penitenti, né nasconde il sarcasmo quando il 21 Giugno ’59 il vescovo riceve “caldo caldo il brodo dalle mani gentili ed affezionate”. Ma intanto siamo scesi nel pettegolezzo. È stato l’anonimo.

 

 

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Concludiamo perciò il quadretto mettendo in mostra qualcosa di più positivo, di più cerebrale nel vescovo Di Giacomo. Ricordiamoci della sua cultura, dei dotti discorsi (sono ammessi anche dall’anonimo), delle solenni epigrafi, della sorveglianza assidua nelle scuole, del suo personale insegnamento in Seminario, della cura nella scelta dei professori.

Il 19 Agosto ’59 tenne una riunione per indirizzare una supplica al Re per stabilire in Piedimonte un collegio di Scolopi, dato che, dopo la soppressione della Scuola domenicana, Piedimonte è decaduta, e “una scuola oltremontana di filosofia materialista aver demoralizzato la città, e fatta aberrare dalle vie del Signore”. Ma egli, lo sappiamo, non era un pessimista. Assicurò “esser buona questa nuova casa, ma non indispensabile”. È che le sue cure andavano soprattutto per il Seminario. Vi aveva stabilito nuovi orari e metodi: non più di tre ore e mezza di scuola al mattino, e al pomeriggio solo studio e qualche esercizio di caratteri (calligrafia).

 

 

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Conclusione. È stata presentata del Di Giacomo una fotografia senza sfondo. Abbiamo visto da alcuni fatti indicatori – fortuna che il lettore non si periterà mai di leggere pagina per pagina l’enorme volume – un uomo tutto preso nella sua funzionalità formale. L’interiorità di lui c’è sfuggita, e quasi abbiamo dubitato se l’avesse.

Ma questo sacerdote che nasconde la cultura sotto l’esuberanza napolitana, ha pure un animo che non ci è stato mostrato dall’anonimo, soprattutto perché l’ambiente in cui viveva – ed era il mondo patriarcale dei Borboni – tranne che per qualche velleità giurisdizionalista, dava al clero, e ad un vescovo in ispecie, tutto il rispetto, il potere, la libertà di azione. I problemi di oggi non erano ancor nati, lotta non ce n’era, e di conseguenza, oltre all’esplicazione dei riti e delle pratiche, ed ad un relativo ozio letterario, non si aveva di che preoccuparsi. In questo mondo che sonnecchiava, Di Giacomo poteva ben apparire al vecchio clero come un guastafeste. Ma quando, a cominciare dal ’60 uno scossone, un urto violento provocò la fine del sopore e del sogno, il clero si trovò impreparato. Ed eccone una parte esser travolta dalla rivoluzione e ribellarsi, una parte stringersi disciplinatamente alle direttive di Roma e generar commozione per l’avversione e il disprezzo di cui era circondata proprio per la sua fedeltà ad un Capo privato di tutto e prigioniero, una parte infine tentar un accordo, avvicinarsi al nuovo, sorridere all’avversario che derideva e spogliava. Fra questi era Di Giacomo. Ma seguiamo gli avvenimenti. Le sintesi verranno dopo.

 

 

L’anno della Rivoluzione

 

Stavolta faremo il diario degli avvenimenti. Il carattere dell’uomo che ricordiamo non ha spicco di fronte alla loro importanza.

Ancora le cerimonie continuano all’antica, e nel Giovedì santo del ’60 il vescovo lava e bacia i piedi ai Cappuccini a S. Francesco, e il Venerdì segue il lungo e mesto corteo. Il 14 Maggio consacra S. Maria Maggiore con solenne funzione. Era personalmente devoto del Patrono S. Marcellino, una cui piccola reliquia insieme a quelle dei santi Celso e Valentino egli chiude nell’altar maggiore. È stata questa sua devozione a determinare alcuni piedimontesi a chiederne la traslazione dei resti mortali dal cimitero di Caserta a S. Maria Maggiore a Piedimonte.

Le notizie nel Maggio sono confuse. Una banda di rivoluzionari sta sollevando la Sicilia. Non ci si meraviglia. La Sicilia è separatista, e attende una spinta, una scintilla. Non è la prima volta che si ribella a Napoli.

Ma quanti dei 20.000 picciotti, quanti delle decine di Comuni che collaborano con Garibaldi, sanno del vero avvenire dell’isola?

Ma a fine Giugno la situazione è paurosamente chiara. Navi cariche di carabinieri in camicia rossa trasformano i “Mille” nei “Quarantamila”, l’ambasciatore sardo a Napoli Villamarina, getta oro e tradimenti, il ventitreenne Re Francesco s’imprigiona nella costituzione del 25 Giugno, e la marcia prosegue senza intoppo, e il 7 Settembre Garibaldi è a Napoli.

Il mutamento psicologico è stato immediato e insospettato. Il 28 Giugno i Gesuiti hanno lasciato Napoli. Di Giacomo lascia la portantina, cammina per il Mercato a piedi col Sottintendente, ed è scortato da “galantuomini”. Di notte tiene in Seminario tre armati. “Iddio lo illumini in questi tempi così difficili”. La situazione precipita. I fedeli del Re vengono silurati. Al Sottintendente Marchese de Mari esonerato, succede Alfonso Rispoli, proprio un implicato del ’48, e tolto da Giudice Regio. “Lo stato attuale delle cose lo tiene in grave timore senza riflettere essere in Piedimonte, dove tutti lo stimano, e perciò cammina sempre col bastone animato, contro ogni principio ecclesiastico”.

Il 31 Agosto di sera, da Piedimonte parte la banda di “insurrezionari” a favore di Garibaldi. Sulla bandiera è scritto: “Legione del Matese”. “…al ponte di ferro di Solopaca saranno diretti da ufficiali piemontesi. Che aberrazione! Che disgrazia!… Dobbiamo deplorare con lagrime la condotta del nostro clero, essendovi tra questi diversi sacerdoti che hanno deposto l’abito talare… e con armi alla mano si sono resi apostati della legione di Gesù Cristo, ed hanno dato il nome a quella dei filibustieri”.

Il 7 Settembre a Piedimonte Governo provvisorio. “I chiassi fatti a Piedimonte la sera del giorno sette sono indicibili, ed una massa di gente perduta e diretta da qualcuno, si diresse da Monsignore per dargli lo Abbasso”. Il giorno dopo, nuovo tentativo di dimostrazione. Dunque Di Giacomo passava per borbonico. Aggiunge allora ai 150 ducati dati dal sindaco Romagnoli ai poveri, altri 50 dei suoi. Il 19 arrivo improvviso dei Garibaldini sbandati a Roccaromana. A questo punto il vescovo licenzia i seminaristi, mandandone una parte a Valle Agricola. Il 21, assalto dei Regi a Caiazzo e incendio. Intanto il terrore per l’imminente saccheggio spinge buona parte della popolazione a fuggire per le montagne, i Garibaldini fanno barricate al Seminario. Porta Vallata, Mulino, Stabilimento, S. Marco, Vico Pere. Di Giacomo si rifugia a Palazzo ducale. Fa chiedere alle monache se vogliono uscire, e quelle poverette rispondono che “vogliono restare colla Vergine santissima”. Ed ecco il capovolgimento. Alle undici di sera del 24 i Garibaldini lasciano Piedimonte, pernottano su S. Maria Occorrevole, e poi vanno via per i monti. Egg coi suoi operai, e il Principe di Piedimonte D. Antonio Gaetani e Di Giacomo, fanno togliere le barricate, poi, mentre escono le bandiere bianche coi gigli d’oro, vanno alla scafa del Volturno. Donde sono usciti tanti borbonici se qualche giorno avanti, a Piedimonte eran quasi tutti garibaldini? “Viva il Re!” da tutte le parti. Si distrugge il Corpo di Guardia, pigliando il pane e formaggio dei Garibaldini. Ecco le avanguardie regie, ecco la truppa di linea svizzera e napolitana. Folla enorme. S’inizia il saccheggio… ma i Gaetani, e Di Giacomo e i signori e i canonici riescono a calmare la folla. Ne esce una processione. Tutti ai piedi di S. Marcellino, e poi si riattraversa il paese pregando, verso l’Annunziata.

Il 27 parte la Cavalleria per Maddaloni, parte il Reggimento svizzero. Le notizie sono oscillanti. Si attende l’esito della battaglia di Capua. Si sostituiscono intanto i funzionari: nuovo Sindaco D. Vincenzo Coppola, nuovo Sottintendente D. Enrico Sanillo. Devono subito correre ad Alife dove c’è stata sollevazione popolare contro proprietari liberaleggianti. Il 3 Ottobre torna il 2° Reggimento di Usseri, e in paesi si rifugiano numerosi profughi di Caiazzo. Di Giacomo deve consegnare la Cassa diocesana al Generale Scotti. Ed ecco il prestito forzoso. Della Commissione Di Giacomo è presidente. Si può prelevare fino a un semestre di fondiaria, il resto ricade sui commercianti e fondachieri locali. Mentre bande di volontari regi arrivano da più parti, e il conte Raffaele Gaetani, fedelissimo al Re, li organizza, arrivano pure feriti. Il Seminario diventa Ospedale, e Di Giacomo forma una Commissione, e gira per il paese chiedendo. Nell’ambiente mutato un prete garibaldino, D. Masucci, si pente, e il vescovo lo manda tra i Francescani, perdonandolo.

Ma ecco i Piemontesi con Re Vittorio in persona a Isernia. Sgomento fra i Borbonici, che lasciano al Seminario 320 feriti. I Gaetani lasciano Piedimonte “Faceva una tenerezza veder tutta la Casa Laurenzana ai piedi di S. Marcellino”. Il vescovo passa ora in casa del liberaleggiante Egg, e si prepara ad uscire incontro alle truppe sabaude. Sarà suo l’invito per rimettere il governo di Vittorio Emanuele. La sera del 26 i primi 200 soldati piemontesi, cui il vescovo provvede. Ed eccolo trattare cogli Ufficiali della Guardia Nazionale al Mercato, dove sistemare le statue di Re Vittorio e di Garibaldi. Il 1° Novembre arriva il Sottogovernatore Grassano, e il 4 la Legione del Matese, ritornata, ordina il Te Deum a S. Marcellino, e di conseguenza Oremus pro Rege nostro Victorio, e all’uscita dalla chiesa “Viva Vittorio Emanuele con tutta l’Italia!”.

Sotto i suoi occhi sono intanto cominciati gli arresti di ecclesiastici, ma che può fare? Cerca di calmare. L’8, Re Vittorio fa ingresso a Napoli, e l’11, primo fra tutti i vescovi dell’antico regno, Di Giacomo ha udienza dal Re. Il colloquio “soddisfacentissimo” dura un’ora. Dopo passa a trattare affari col Luogotenente Farini.

Il “borbonico” Di Giacomo crede di aver così scongiurato la tempesta. Torna a Piedimonte accolto bene e male, riapre il Seminario. Una sottoscrizione di 177 firme, delle quali 14 sono ecclesiastici, ricorda ai nuovi signori che il vescovo è “reazionario” e ne chiede l’allontanamento[6].

Ma non se ne fa niente. O per paura, o per convinzione Di Giacomo è apertamente col Re sabaudo, col Governo nazionale, e per l’Unità. Nessuno può muoverlo più.

 

 

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Indagare sui moventi delle sue azioni in quei momenti di eccitazione, sarebbe arbitrario. Apparentemente passò, armi e bagagli, da una causa all’altra. Due elementi però aprono uno spiraglio nei misteri del suo animo. L’azione pacificatrice che non avrebbe potuto svolgere se non avesse appoggiato il vincitore del momento, e il parere dato dodici anni prima a Re Ferdinando, riguardo alla costituzione.

Ma dalla parola di un uomo d’arme, il Generale della Rocca, il liberalismo morale, religioso del Di Giacomo ci appare nella luce più vivida e sicura. Liberalismo per lui non è solo il contrario dell’assolutismo politico, non è solo partecipazione formale del popolo al governo. È rispetto della libertà degli altri perché è rispetto di sé. E nel momento storico che si attraversava, voleva essere rinnovamento di mentalità, purificazione politica e morale dell’asservimento, elevazione politica e spirituale ad una vita più dignitosa e responsabile. Tale lo vedevano gli spiriti migliori.

Che se in seguito, il “verismo” dei politicanti ridusse tal nobile programma a camarille, asfissie, intrighi, arrivismi, la colpa era forse degli idealisti che non avevano saputo preveder ciò? No, come non è colta del Vangelo se, pur raccomandando da venti secoli una vita migliore, non riesce tuttavia ad eliminare una vita sotterranea, sempre la stessa dal Paleolitico all’epoca atomica. È nella natura dell’uomo l’aspirazione al bene legata alla tendenza al male.

Scriveva il della Rocca: “Ad Alife venne da me il Vescovo, persona molto per bene, di alto e giusto sentire. Apparteneva a quella metà del clero napolitano che era liberale, perché sperava da un nuovo governo un radicale rimedio alla corruzione che da secoli infestava quei paesi. Si fermò più di un’ora a discorrere con me, e rammento con quanta meraviglia gli sentii dire, fra le altre cose: Vincerete facilmente gli eserciti napoletani…ma vi sarà difficile vincere l’immoralità dei napoletani, specie quella di una gran parte del clero. Sono più di vent’anni che vivo in questi paesi, e una triste esperienza mi ha insegnato quanto poco si possa fare per essi, anche lavorando continuamente a migliorarli. Non sarete i veri vincitori dei Napoletani, se non riuscirete a inculcar loro le sante verità di ordine morale, e, ve lo dico, ci vorrà tempo e fatica”[7]. Per questo dicevo in principio che le notizie dell’anonimo cronista piedimontese andavano interpretate sotto una visuale diversa.

 

 

Dal 1861 al 1875

 

 

 

 



[1] Sarti T.: Op. cit., pag. 400.

[2] Almanacchi Reali del Regno delle Due Sicilie, anteriori al 1849.

[3] Marrocco D.: Piedimonte, pag. 280.

[4] Si trova in De Sivo: v. bibliografia.

[5] Due ore dopo il tramonto.

[6] “…Ha ordito ed attuato due forti reazioni, il 30 giugno e il 26 settembre”. Si chiede che venga rimosso “dal centro dei suoi soprusi e delle sue manovre”. (Documento al museo di Piedimonte).

[7] In Petella: op. cit. pag. 177.