Il
sacerdote austero, lo studioso solitario aveva un cuore. Un cuore palpitante
verso ciò che è grazioso e deliziosamente umano.
Di
fronte alle piccole anime sorrideva intenerito, e s’immedesimava nei loro
concettucci, negli infantili desideri. Effetto della capacità di
spersonalizzazione propria dei cuori emotivi e disinteressati, più che delle
menti astratte; cose poi assolutamente impossibili per i disonesti e i
corrotti.
La
poesia è sentimento e fantasia, e non necessario far versi per sentirla. Don
Giacomo aveva un animo come l’hanno un po’ tutti quelli dei monti, quelli non
raffinati dalla città e dalla società, un animo semplice, anzi, vergine. Sarà
l’ambiente dagli scenari sconfinati e solitari, sarà la vita modesta di
villaggio che li predispone a ciò.
Dinanzi
al bello artistico, quello creato dall’uomo, non sentiva la commozione che
provava di fronte al bello naturale. Parlando dei monumenti di Pisa, scriveva
(4 Dicembre 1908): “La fantasia mi suscita nella mente un fantasma così
smagliante, così sublime delle cose che poi, quando mi trovi dinanzi alla
realtà, non posso non provare lo schianto della delusione”. E cosa ammira?:
“…Il tramonto, per esempio. Il tramonto contemplato dal Lungarno è sempre bello
ed è sempre nuovo: ma in certe sere ha tali riflessi cangianti di luce, ha tali
bagliori ch’è uno spettacolo divino. E mi piace pure una specie d’istinto
meraviglioso che si sente in mezzo al popolo”. Dunque è il bello naturale a
generargli sentimento estetico. Quando la visione è diversa, egli respinge la
grandiosità per sé stessa, fastidiosa, non attraente. A Roma (12 Novembre 1908):
“…la basilica di S. Paolo mi irritò addirittura: io non credo che si potesse
innalzare un tempio più pagano, più profano al più grande degli Apostoli!”.
***
Inutile
dire che il suo animo sensibile aveva uno spiccato gusto musicale. Preferiva,
fra i tanti, senz’altro i Romantici, e fra essi Mendelssohn, con le sue
“Romanze senza parole”. Per la musica sacra, pur essendo un conoscitore e un
amatore del Gregoriano, dava la preferenza ai canti semplici, melodici,
facilmente orecchiabili, poiché suo scopo era di far partecipare tutti, far
capire, far sentire la bellezza della liturgia. Ora, un motivo semplice
s’imprime facilmente nell’orecchio e nel cuore dei fedeli, e con essi il ricordo
della funzione cui qual canto è legato.
Dunque
anche nell’armonia entrambi i valori: estasi intima e missione elevatrice del
gusto.
***
Si
veda quanto mette nella parola e nell’anima dei fanciulli per far loro
intravedere al di là della poetica tradizione del presepe, il valore elevante
della parola di Dio, divenuta uomo:
…Lo so, preferisci il freddo agli spini
che sono nel cuor dei cattivi bambini!
Per questo gli spini, vò toglierli tutti,
gettarli lontano: son tristi e son brutti,
vò fare il mio cuore più bello e più buono;
del male che ho fatto ti chieggo perdono.
In questo mio sforzo aiutami tu…
Si
noti l’ultimo verso: il primo tentativo a far comprendere l’azione della Grazia
soprannaturale, che viene dopo il nostro sforzo.
La
stessa idea domina nel “Dialogo dei pastori”: mettere nell’animo infantile
l’idea costante della religiosità che non si paralizza nella forma, ma si attua
già in uno stato d’intenzione pura, che supera, nel suo valore di dedizione,
ogni atto apprezzato dall’uomo comune.
Notate
ora, nella composizione che segue, il valore d’interpretazione di quel che può
un esserino nella culla sull’animo adulto, rapito. Si gustino i paragoni che
sfuggono all’uomo banale: qual che l’infante compie nell’azione irriflessiva,
supera, negli effetti emotivi che comunica, quanto può produrre l’adulto in
stato di grazia.
Alla bambina Lilia de Lellis, di mesi tre.
Mentre il sonno lieve e dolce le mie palpebre
premeva,
Lilia è apparsa questa notte, m’ha sorriso, e mi
diceva:
Mi diceva civettuola: “Sai? Ci ho gente a casa mia,
son regina della festa, sono l’angelo, il messia,
son la gioia, sono tutto!… Ma son pur tanto piccina,
ed ancora balbettare io non so una parolina.
So sorrider, so imbronciarmi, so far tante
smorfiette,
ma dell’arte di parlare, non ho appreso ancora un
ette.
Dillo tu ai buoni zii, quel che dire or non saprei,
dille tu le tante cose belle e care ch’io vorrei,
siamo intesi?”. Così ha detto, ha sorriso, ed è
sparita,
qual celeste visione è comparsa ed è svanita.
Oh, mia Lilia! Io no, non posso accettare il caro
invito!
altro verso ci vorrebbe, assai terso e più forbito.
No, mia Lilia, parlerai melodie di Paradiso
tu, coi vezzi, colle grazie sante e ingenue del tuo
viso.
Parlerai con le moine, parlerai con l’occhio anelo,
che divaga, che si fissa, che ricerca terra e cielo.
L’affannoso lavorio del tuo labbro in movimento
è il poema più grandioso, più potente del momento.
Il silenzio tuo è loquace più del verso mio
migliore,
il tuo grido è più efficace che un bel canto del mio
cuore,
il tuo riso… d’espressioni dolci e care è si
fecondo!
Il tuo riso vale un canto, il tuo riso vale un
mondo!
Lilia, io taccio. Fissi tutti, tutti attenti al tuo
bel volto,
parla tu col tuo sorriso: io cogli altri taccio e
ascolto.
(11 ottobre 1908)
Innanzi
ai subitanei scoramenti, agli abbattimenti di chi comincia ad avvertire in sé
lo sboccio di una nuova vita, egli senza figli e senza famiglia, avvertì quei
sentimenti di tenerezza e di conforto, velati di compressa commozione, che ogni
uomo – parlo di quelli migliori – sente innanzi alla propria sposa. Non occorrono
parole di commento. Son versi semplici, ad una sua nipote, e saranno apprezzati
da quelli che hanno un cuore.
Non ripeterla più la sconsolata
parola: “Son finita!”.
Ho il corpo affranto e l’anima ammalata:
sento fuggir la vita.
Non dirla più! Le angoscie senza nome
che ti danno sgomento
velocemente vaniranno, come
nere nuvole al vento.
Una manina tremula e gentile
verrà a sfiorarti il viso,
una vocina tenue e sottile
“Mamma”, dirà “un sorriso!”.
E tu sorriderai. Ritornerai
romantica fanciulla,
i sogni, si sogni tuoi ricanterai
sovra una bianca culla.
E la lacrima, o cara, che dal ciglio
ora ti sgorga mesta,
ti cadrà, ma per gioia, di tuo figlio
sovra la bionda testa.
A che disperi? A che tanto terrore?
Perché? Perché quel pianto?
Sarai madre! Solleva in alto il cuore!
Schiudi l’anima al canto!
Chiudo
con un breve frammento: il programma della sua vita in versi.
Nella
lettera del 12 novembre 1908 già l’aveva esposto questo programma, ed io lo
propongo come lapide alla sua tomba: “…l’ideale della mia vita: dolorare e
sacrificarmi, pensare e agire”. Inizia altero, così sembra ma si espande subito
nella tenerezza, nella carità cristiana. Né questa appare qui accettata come
dovere (è tale nella gran parte dei tiepidi cristiani). È passione. Egli sprezza
il godimento e i gaudenti, e neanche perché si senta un asceta, rigidamente
pago delle sue conquiste e dei poteri inibitori raggiunti, ma perché ha
un’altra serie di gioie da vivere. Chi ha studiato psicanalisi vede chiaro qui
il fenomeno non di reazione ma di sublimazione dei sentimenti.
Sulle gioie della vita ardenti e belle
passo sprezzante e altero:
io sol dono il mio cuore e il mio pensiero
ai gementi quaggiù sotto le stelle.
Oh penetrare le lacrime arcane,
il pulsar delle vene!
Poter lenire tante e tante pene,
immense pene, pene sovrumane!
Poter cangiar del dolor la stretta
in un tenue sorriso!
donar della pia speme il paradiso!…
… è sol gioia per me, gioia perfetta.