ç (Torna a Indice) INQUADRAMENTO STORICO DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
1. LO
STATUTO ALBERTINO.
Il 7 febbraio del
1848, Carlo Alberto, Re di Sardegna già dal 1831, davanti al Consiglio di
Conferenza, aprì la discussione con queste parole: “ Sono 17 anni che regno
e modello il mio governo sulle necessità dei tempi. Ho dovuto, nel ’33
infierire rigorosamente contro le mene rivoluzionarie; e quando la pace è stata
ristabilita, ho riformato le diverse legislazioni dei miei stati. Ma da un anno
a questa parte, in mezzo all’agitazione che si è impadronita degli spiriti, le
tendenze verso la libertà si accentuato ogni giorno di più. Vi ho riunito in
Consiglio per discuterle insieme con voi. Non vi chiedo che due cose: mantenete
intatta l’autorità della nostra santa religione e tenete conto della dignità
del Paese”.
In quell’anno di
travagli e di conquiste, davanti alla spinta irresistibile del fronte liberale,
l’amletico atteggiamento del re sabaudo si sciolse in una soluzione coraggiosa,
ma ineluttabile. Un mese dopo, il 4 marzo del 1848, viene concesso lo STATUTO
nel cui preambolo si proclamava la volontà del Sovrano di conformare le sorti
dei sudditi alla ragione dei tempi, agli interessi e alla dignità della
Nazione; si considerano le larghe e forti istituzioni rappresentative come il
mezzo più sicuro per raddoppiare i vincoli di indissolubile affetto tra la
Corona e il popolo che tante prove aveva già dato di fedeltà, di obbedienza e
di amore. Il preambolo si chiude con una solenne dichiarazione in cui si
definisce lo Statuto legge fondamentale, perfetta e irrevocabile della
monarchia. Il testo dello Statuto fu redatto in francese che era ancora la
lingua in uso presso la Corte e fu preparato dal Consiglio di Conferenza nello
spazio di circa un mese, in cinque lunghe sedute sotto la presidenza dello
stesso re, che, però, raramente intervenne nelle discussioni. La carta
costituzionale albertiana è del tipo delle costituzioni cosiddette ottriate
(dal francese octroyée = graziosa concessione) in quanto viene elargita
dal sovrano al popolo come concessione propria e non votata dal popolo stesso
con libera scelta dei principi informatori e delle norme fondamentali. Nella
compilazione dello Statuto gli estensori tennero certamente sott’occhio le tre
ultime costituzioni più aderenti alle esigenze delle masse, comunque
contemperate dal desiderio di non allargare pericolosamente i limiti imposti
non solo dagli interessi della Corona, ma anche di quegli stessi liberali che
spinsero il re a mutare le basi dello Stato. Si trattava della Costituzione del
1814 (14 giugno), concessa ai Francesi da Luigi XVIII, dopo il definitivo
tramonto della stella napoleonica; della Costituzione del 1830 (14 agosto),
giurata da Luigi Filippo d’Orleans, dopo la cacciata di Carlo X dal secolare
trono dei Borboni, della Costituzione del 1831 (7 febbraio), promulgata in
occasione della formazione del nuovo Regno del Belgio.
Il termine
Statuto fu veramente originale: esso si richiamava agli ordinamenti degli
antichi Comuni italiani, che sembravano tramandare, specialmente nella
storiografia risorgimentale
una passione libertaria, suggestiva ed
eccitante, anche se, sul piano rigorosamente storico, non fossero da mescolare
gli statuti comunali (di indole squisitamente amministrativa) con quello,
profondamente politico, emanato da Carlo Alberto. Il termine Statuto serviva
anche a nascondere quello più sgradevole per i sovrani di Costituzione in modo
da fronteggiare, sia pure sul piano strettamente formale, le recriminazioni e
le minacce delle corti europee più conservatrici.
La struttura dello Stato, quale risulta dalla carta
albertina, è questa.
Al vertice delle gerarchie statali rimaneva il re nel quale
lo stato necessariamente s’impersonava in quanto nessuna legge si poteva
erogare senza la sua approvazione, né poteva costituirsi governo i cui ministri
non fossero da lui nominati. Nel nome del re veniva, inoltre, amministrata la
giustizia; la persona del re era sacra ed inviolabile (art. 4).
Il potere
legislativo era assolto da due camere (art. 3): il Senato e la Camera dei
Deputati. Il Senato era di nomina reale: i suoi membri venivano eletti dalle
categorie socialmente più elevate ed avevano dignità maggiore di quelli della
seconda Camera. I Deputati erano eletti dal popolo con sistema elettorale non
enunciato nello Statuto e quindi spesse volte cambiato nel giro di un secolo, a
seconda delle mutevoli condizioni storiche del Paese. La Camera dei Deputati
era eletta ogni cinque anni, ma il re poteva deciderne lo scioglimento di
propria iniziativa convocandone un’altra nel termine di quattro mesi (art. 9).
I giudici erano nominati dal re e lo Stato ne garantiva l’inamovibilità dopo
tre anni di servizio (artt. 68-69).
I diritti e i
doveri dei cittadini erano elencati con formule eccessivamente vaghe e spesso
suscettibili di interpretazioni contraddittorie (artt. 24-32).
Nel complesso lo
Statuto si presentò come un’abile compromesso tra l’assolutismo regio, timoroso
di ogni spinta rivoluzionaria e le esigenze di una borghesia illuminata che
desiderava l’attuazione di alcune libertà politiche senza promuovere, però,
modificazioni profonde nel tessuto sociale della Nazione.
Quando, dopo il
1859, lo Statuto fu esteso, mano mano, alle regioni annesse, le forze liberali
riuscirono indubbiamente a circoscrivere sempre di più l’influenza della
Corona, profittando dell’elasticità o del silenzio di alcune norme fondamentali
riguardanti i rapporti tra i cittadini e lo stato. Ma proprio la flessibilità
della carta albertina e il suo silenzio su molti problemi di natura politica
poterono consentire, dopo la Prima Grande guerra, il processo involutivo dello
spirito di libertà che, comunque, era stata determinante nella concessione
fatta dal re, nel lontano 1848.
2. PROCESSO
INVOLUTIVO DELLO STATUTO.
Durante il ventennio fascista non fu mai
abrogata o modificata alcuna norma statutaria, ma furono emanate di volta in
volta leggi o disposizioni che finirono col modificare e mortificare lo spirito
liberale del documento, instaurando di fatto una dittatura e modificando nella
sostanza gli organismi legislativi ed esecutivi.
Per chiarezza espositiva preferiamo citare in
ordine cronologico tutti quegli avvenimenti o quelle leggi che consentirono al
Fascismo di impossessarsi del potere, reprimendo tutte le libertà che lo
Statuto intendeva garantire.
Anno 1922
– Quando il 31 luglio i socialisti proclamarono lo sciopero generale, è Capo
del Governo Luigi Facta. Dalla fine della guerra l’Italia non ha avuto pace e
nessun uomo politico è riuscito a placare le inquietudini delle masse,
desiderose di sicurezza, e i timori della borghesia mercantile che vede con
preoccupazione il diffondersi del socialismo. Intanto diventano sempre più
forti ed invadenti i movimenti di spiccata tendenza nazionalista, che nelle
elezioni del 1921 riescono a portare alla Camera i primi trenta Deputati, tra
cui Benito Mussolini. Questi nel 27 ottobre 1922, dispone la mobilitazione
generale dei suoi seguaci a Napoli e il 28 ottobre ordina la marcia su Roma. E’
evidente che il capo del partito fascista intende assumere il governo della
Nazione anche con la forza e con la violenza. Ma non vi è né combattimento, né
rivoluzione: infatti Vittorio Emanuele III, con un atto fuori da ogni
consuetudine costituzionale, ma con ottemperanza alla lettera dello Statuto
(artt. 5 e 6) invece di firmare lo stato d’assedio proposto dal Facta, chiama
direttamente Mussolini a formare il nuovo governo.
Niente di anticostituzionale, quindi, ma la
norma questa volta si è adeguata alla minaccia.
Anno 1923
– Il 18 novembre con la legge n. 2444 viene innovato profondamente il sistema
elettorale. Allo scrutinio di lista per singoli collegi con rappresentanza
proporzionale si sostituisce un sistema misto, per il quale l’assegnazione dei
posti viene diversamente regolata secondo che si tratta di maggioranza o di
minoranza. Infatti in base alla nuova legge è assegnato un premio alla
maggioranza, ma non alla maggioranza assoluta del 50,01%, bensì alla semplice
maggioranza relativa che si prende alla Camera i due terzi dei posti, lasciando
l’altro terzo da dividersi proporzionalmente tra tutti gli altri partiti. Anche
questa legge profondamente antidemocratica, rispetta formalmente lo Statuto, ma
ne intacca gravemente lo spirito liberale. In tal modo il Fascismo vincerà le
elezioni del 6 maggio 1924.
Anno 1925
– Questo anno inizia con il discorso del 3 gennaio con cui Mussolini sancisce
con chiare parole il suo diritto-dovere a governare l’Italia e a difenderla
dalle forze della sovversione anche a costo di reprimere la libertà. Egli parla
ad una Camera senza oppositori che, dopo il delitto Matteotti, non partecipano
più alle sedute. La legge sul primo ministro del 24 dicembre instaura un
nuovo ordine, affidando al capo del Governo tali prerogative da assumere una
netta superiorità non solo nei confronti dei ministri, ma anche nei riguardi
del Parlamento; infatti il primo ministro è nominato o revocato dal re ed è
responsabile soltanto verso il sovrano della sua condotta politica e dei suoi
atti amministrativi. Il potere legislativo rimane alle Camere, ma queste non
possono ormai più determinare la caduta del Governo che vive come staccato e
autonomo senza altro controllo che quello del re.
Anno 1926
– Il 31 gennaio è promulgata la legge sulla facoltà del potere esecutivo di
emanare norme giuridiche, svuotando così ancor più il Parlamento di autorità.
Il 6 novembre viene pubblicato il Testo unico delle Leggi di Pubblica
Sicurezza che disponeva lo scioglimento delle associazioni che svolgessero
comunque attività contraria all’ordine nazionale affidando ai prefetti
l’adempimento di tale obbligo. In tal modo veniva soffocata la fondamentale
libertà di associazione senza per questo modificare lo Statuto e interpretando
in senso restrittivo l’articolo 32 della carta albertina che demandava alle
leggi di polizia l’autorizzazione o meno ad adunarsi. Con queste disposizioni
il partito fascista fu l’unico partito consentito in Italia. Il 25 novembre
dello stesso anno la Legge sulla difesa dello Stato non solo comminava
la pena di morte per chiunque attentasse alla vita del re e del capo del
Governo, ma istituì un Tribunale speciale per la difesa dello Stato che
avrebbe erogato pene severissime per chiunque avesse ricostruito associazioni o
partiti politici.
Anno 1928
– La legge del 17 maggio n. 1051 modifica ancora il sistema elettorale,
subordinando il diritto di voto al possesso di determinati requisiti e
restringendo l’elettorato a circa 9 milioni e mezzo di cittadini, pari a circa
il 23 % della popolazione.
Il capo del Governo compilava l’autorità, il
listone, che, approvato dal partito fascista, poteva essere accettato o
respinto dall’elettore. Il 9 dicembre dello stesso anno viene promulgata la
legge che impone il Gran Consiglio del Fascismo come organo
costituzionale dello stato.
Anno 1938
– Il 14 luglio si pubblica la Carta della razza, costituita da dieci
punti. Tra l’altro, all’articolo 9, è detto che gli Ebrei non appartengono alla
razza italiana. Di conseguenza sono erogate le leggi razziali che
comportano gravissime limitazioni non solo per cittadini di altre razze, ma
anche per i cittadini italiani ai quali si vieta, tra l’altro, il matrimonio
con stranieri o comunque con persone di razza diversa. Ciò dà luogo a
discriminazioni dolorose, a situazioni spesso drammatiche. Lo Statuto albertino
non è modificato nella sua lettera, ma ormai l’eguaglianza dei cittadini di
fronte alla legge è solo una platonica affermazione di principio, senza alcuna
rispondenza nella realtà. Il 14 dicembre la Camera dei Deputati viene
sostituita dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni i cui membri,
chiamati consiglieri nazionali, sono praticamente di nomina governativa. Ormai
arrivano gli anni tragici della Seconda Guerra mondiale e lo Stato fascista non
resiste al terribile urto con la terribile realtà mondiale. Dopo vent’anni di
governo tutto crollerà: rimarrà inalterato lo Statuto, ma contro di esso si
appunterà il dito accusatore di quanti, proprio per l’elasticità delle sue
norme, avevano sofferto la violenza e le offese ai beni supremi della libertà e
della eguaglianza.
3.
DALLA
MONARCHIA ALLA REPUBBLICA.
Il 24 luglio 1943, il re, Vittorio Emanuele
III, avvalendosi di una precisa norma dello Statuto (come aveva fatto
nell’ottobre del 1922 ) revocò Mussolini dalla carica di Capo del Governo e al suo posto chiamò il Maresciallo
Pietro Badoglio.
Arrestati il capo e i più qualificati esponenti
del partito fascista, il nuovo Governo emanò, subito dopo, alcuni provvedimenti
con cui si scioglieva il Partito fascista e la Camera dei Fasci e delle
Corporazioni, e ci si impegnava di istituire, entro il termine di quattro mesi
(come prevedeva lo Statuto), nuove elezioni per la Camera dei Deputati. Intanto
si ripristinavano di fatto la libertà di parola, di stampa, di associazione.
Crollato lo Stato fascista, mentre la guerra
infuriava, non solo sul nostro suolo, ma in tutti i continenti, si ebbe un
quinquennio di assestamento (1943-48), dove è possibile distinguere un primo
periodo (1943-44), in cui è evidente il tentativo della monarchia di restaurare
nella sua primigenia purezza lo spirito dello Statuto, e un secondo periodo
(1944/45) dove si delinea il conflitto tra la corona e le forze popolari
antifasciste, tendenti ad affidare alla libera volontà del popolo la forma
istituzionale da parte della nuova Italia libera.
Il 12 aprile 1944 Vittorio Emanuele III si
decise finalmente ad annunciare il proposito di ritirarsi a vita privata in
maniera definitiva e irrevocabile, senza però abdicare, ma nominando il
principe ereditario luogotenente generale. Intanto si era formato un
governo di unità nazionale (in cui erano rappresentate tutte le forze attive
del momento), al quale con decreto legge luogotenenziale del 25 giugno 1944, n.
151, fu demandato non solo il compito di indire nuove elezioni per una
Costituente da convocare subito dopo al fine delle ostilità, ma anche di
legiferare fino all’entrata in funzione del nuovo Parlamento. Questo decreto, segna
in realtà, la morte dello Statuto Albertino in quanto si riconosceva un vuoto
istituzionale per decreto dello stesso rappresentante della corona. Facendo
seguito a questa decisione, il 16 marzo 1946 fu promulgato il decreto
luogotenenziale sul referendum istituzionale con cui si proclamava che
insieme alle elezioni per l’Assemblea Costituente, il popolo sarebbe stato
chiamato a decidere, mediante referendum, sulla forma istituzionale dello Stato
(Monarchia o Repubblica).
Il 9 maggio 1946 Vittorio Emanuele III abdicò
in favore del figlio luogotenente; questi assunse il titolo di re d’Italia col
nome di Umberto II e si affrettò a riconfermare l’impegno di rispettare, come
ogni cittadino, le libere determinazioni del referendum.
Il 2 giugno 1946
si tennero le votazioni per l’elezione dell’Assemblea Costituente e per la
scelta istituzionale. La maggioranza del popolo italiano (53%) si espresse a
favore della forma repubblicana e i costituenti eletti, appartenenti ai diversi
partiti, iniziarono la compilazione della nuova carta costituzionale.
Il 13 giugno 1946
Umberto II lasciò l’Italia per l’esilio.
Alcide De
Gasperi, Presidente del Consiglio, assunse la reggenza come Capo dello Stato.
Il 18 giugno venne proclamata la Repubblica e il 28 l’Assemblea Costituente
elesse Enrico De Nicola Capo provvisorio dello Stato.