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a Indice) L’ORDINAMENTO DELLO STATO E I SUOI ORGANI COSTITUZIONALI.
1. CARATTERISTICHE DELLO STATO ITALIANO.
Nel
capitolo precedente abbiamo sintetizzato in una serie di aggettivi le caratteristiche
dello Stato italiano quali risultano dalla lettera e dallo spirito della nostra
Costituzione; che per alcune di esse, ci dà delle definizioni precise, potremmo
dire categoriche, mentre per altre ci dà ampia possibilità di ricavarle o dal contesto
o dagli Istituti che ne costituiscono la palese manifestazione. Non sarà qui
inutile richiamare le predette caratteristiche citando anche gli articoli della
Costituzione da cui è dato ricavare in forma diretta o indiretta le
caratteristiche stesse.
Possiamo dire
quindi che l’Italia è uno Stato:
a)
Repubblicano perché la sua forma istituzionale liberamente scelta dal popolo
mediante il referendum del 1946 è la Repubblica ossia quella forma di Stato
nella quale tutti gli organi (a cominciare dal Capo dello Stato) sono elettivi
ed hanno durata limitata. La definizione si desume direttamente dall’art.1
della Costituzione che recita con epigrafica brevità “L’Italia è una
repubblica democratica fondata sul lavoro” (e che si contrappone all’art. 2
dello Statuto albertino nei quali l’Italia era definita una Monarchia), nonché
dall’art.139 secondo cui “la forma repubblicana non può essere oggetto di
revisione costituzionale”; e non è causale che proprio il primo e l’ultimo
articolo della nostra Carta si richiamino in modo esplicito alla forma
istituzionale dello Stato, quasi a voler chiudere in un grande, simbolico
abbraccio i principi e gli istituti che nel succedersi degli articoli danno
vita e sostanza alla Repubblica;
b)
democratico nel senso etimologico della parola in quanto la sovranità,
ossia il potere (cratìa) appartiene al popolo (demos) come è esplicitamente
affermato dal secondo comma dell’art.1, per ribadire ulteriormente la
definizione di democrazia già contenuta nel primo comma. Come risulta dalle discussioni
parlamentari in sede di Assemblea Costituente, la parola appartiene è
comprensiva di tre concetti: il possesso in quanto il popolo è sovrano
per diritto naturale originario, la proprietà in quanto il popolo si
riconosce giuridicamente titolare della sovranità e ne definisce le forme e i
limiti di esercizio, l’irrinunciabilità in quanto il popolo non può
rinunciare alla propria sovranità. Quando partecipa al referendum o alle
elezioni politiche o amministrative per eleggere i propri rappresentanti o esercita
l’iniziativa legislativa secondo l’art. 71, il popolo esercita direttamente la
propria sovranità: negli altri casi la esercita indirettamente per il tramite dei propri rappresentanti;
c)
costituzionale e non assoluto com’erano le monarchie ottocentesche prima
della concessione delle varie Carte e Statuti. Tale caratteristica, che
discendecome corollario della precedente di democratica, vuol significare che
tutti nello Stato italiano, dal Presidente della Repubblica all’ultimo
cittadino, sono soggetti alla legge e innanzitutto alla prima di esse, la
Costituzione; che tutti gli organi dello Stato e le loro attribuzioni sono
regolati dalla Costituzione, la quale regola altresì i rapporti tra i
cittadini e lo Stato stesso. Non
vi è un particolare articolo che dica esplicitamente tale definizione, ma essa
si ricava da tutto il contesto, dalla esistenza stessa di una costituzione, che
non avrebbe ragione di esistere in uno stato assoluto: ed è questa la
caratteristica che fa dell’Italia uno Stato, come si suole anche dire, di
diritto. La soggezione di tutti (dello stesso Stato) alle leggi non deve essere
soltanto sancita, sia pure solennemente, ma deve essere effettivamente attuata
e garantita; e la migliore garanzia che la scienza politica di ogni tempo abbia
trovato è la divisione dei poteri, ossia un sistema per cui gli organi (e le
persone fisiche ad essi preposte) che debbono con l’attività legislativa creare
le norme generali ed astratte per assicurare la pacifica convivenza e il
benessere dei cittadini, siano diversi da quelli che, con l’attività esecutiva,
debbono attuare in concreto le predette norme e diversi ancora da quelli che
con l’attività giurisdizionale debbono giudicare sulle controversie sorte in
sede di applicazione delle norme: la nostra Costituzione offre nel modo più
completo questa garanzia perché attua in pieno il principio della divisione dei
poteri pur tenendo presente la necessità di integrazione e di coordinamento dei
poteri stessi che è propria degli Stati moderni, per la complessità dei loro
complessità dei loro compiti, ai fini di un’azione unitaria;
d) rappresentativo
perché, al di fuori dei tre casi previsti, il popolo esercita la propria
sovranità in maniera indiretta, cioè tramite i propri rappresentanti eletti
liberamente a suffragio universale con voto segreto. La caratteristica si
desume indirettamente dagli artt. 48 (diritto di voto) e 55 (esistenza di un
Parlamento articolato in due Camere): ed infatti l’esercizio dei tre
fondamentali poteri (legislativo, esecutivo e giurisdizionale) nei quali si
concreta la sovranità popolare, avviene proprio tramite il Parlamento che
approva le leggi, controlla il Governo e fornisce alla Magistratura le norme
giuridiche in base alle quali questa giudica i casi concreti. Il carattere rappresentativo
dello stato italiano, che già era tale quando aveva forma monarchica, è
ulteriormente accentuato nell'attuale forma repubblicana dal sistema elettivo
che vige per entrambe le Camere, mentre secondo lo Statuto Albertino soltanto
la Camera dei Deputati era elettiva essendo il Senato di nomina regia;
e) parlamentare,
come si desume chiaramente dal citato articolo 55 per l'esistenza di un
Parlamento, formato dai rappresentanti del popolo, alla cui fiducia sono
subordinati, secondo l'art. 94, la vita e il funzionamento del Governo,
bastando una mozione di sfiducia votata per appello nominale da una sola delle
Camere per determinare le dimissioni del Governo stesso. Ma poiché esistono
anche tipi di Repubbliche in cui il potere del Parlamento non è così
determinante come nella nostra e nelle quali attribuzioni molto maggiori sono
conferite al Presidente della Repubblica (perciò si parla in tal caso di
Repubbliche presidenziali: Francia), l'aggettivo serve anche a distinguere la
nostra da queste ultime repubbliche. In seno all'Assemblea Costituente fu
dibattuta a lungo la questione se dare alla Repubblica Italiana carattere
parlamentare o presidenziale, vari essendo gli argomenti a sostegno
dell'una o dell'altra tesi e
temendosi da un lato le degenerazioni parlamentaristiche dall'altro il
pericolo, maggiormente sentito, dopo l'esperienza dittatoriale, di poteri
troppo vasti al Presidente: disse in proposito il relatore l'on. Mortati “[...]
che il tentativo di inserire un elemento del regime presidenziale con la
garanzia di una certa stabilità di vita all'esecutivo nel congegno proprio del
regime parlamentare (caratterizzato dall'esclusiva derivazione del governo,
dal parlamento) avrebbe potuto far sperare di dar vita ad una stabilità più
sostanziale di quella che non si sarebbe avuta con l'instaurazione di un regime
presidenziale”. Così fu introdotto il temperamento del già citato art. 94
il quale, mentre lascia al Parlamento la piena facoltà di concedere o negare la
fiducia al governo, non fa obbligo al governo stesso di dimettersi in caso di
voto negativo di una o entrambe le due Camere su una proposta;
f) nazionale
nel senso che il popolo italiano (insieme dei cittadini soggetti allo Stato) è
composto quasi totalmente di
appartenenti alla nazione italiana: non infirma tale caratteristica il fatto
che nello Stato italiano vivano piccole minoranze etniche di altra nazionalità
(francesi, austriache, slave) alle quali l'art. 6 accorda particolare tutela
con apposite norme, né il fatto che appartengano ad altro Stato minoranze
linguistiche ed etniche italiane alle quali per altro la Repubblica accorda
(art. 51) la parità di diritti ai fini dell'ammissione ai pubblici impieghi;
g) unitario
come si desume in modo inequivocabile dall'art. 5 che definisce la repubblica
“una ed indivisibile” il che non esclude il più ampio decentramento
amministrativo, il riconoscimento delle autonomie locali, la ripartizione della
Repubblica in Regioni (art. 114), Province e Comuni. Infatti non sono i vari
Enti autonomi che riunendosi formano lo Stato unitario (come avviene nelle
repubbliche federali, ma è lo Stato, al quale solo appartiene il potere
originario ed esclusivo d'impero, che crea gli Enti minori e dà loro autonomia
nell'ambito della propria unità: e così avremo unità di indirizzo politico
nelle questioni che investono interessi generali (difesa esterna, ordine
pubblico interno, istruzione, finanze ecc.) mentre avremo autonomia e
decentramento nei campi di interessi più particolari che riguardano la normale
amministrazione. Ultimamente, ad esempio, è stata approvata la riforma del
sistema sanitario, che affida alle regioni il compito di legiferare in materia,
anche se rimane una sola l'autorità centrale (il ministero della Sanità);
h) sociale
nel senso più ampio e completo della parola in quanto si propone di ottenere
per tutti i cittadini il maggior possibile benessere materiale e spirituale; ed
in questo vasto quadro rientra senz'altro l'esplicito riferimento all'art. 2 in
cui si riconoscono le formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità
umana. Ma ciò che conferisce il più evidente carattere di socialità alla nostra
Repubblica è il primo comma dell'art.1 che la definisce “fondata sul lavoro”:
sarebbe una contraddizione in termini negare un carattere spiccatamente sociale
ad uno Stato che ha per base il lavoro. La definizione non ha un significato
classista, ma un’estensione generale che è ulteriormente chiarita dall'art. 4
dove si dice che ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo la propria
possibilità e le proprie scelte, un'attività o una funzione che concorra al
progresso materiale e spirituale della società;
i) confessionale
in materia religiosa perché riconoscendo che la quasi totalità degli Italiani
pratica la religione Cattolica, accorda alla Chiesa Cattolica una posizione
preminente tutelandone la missione e regolando i rapporti con essa, secondo
quanto prescrive l'art. 7, sulla base dei Patti Lateranensi composti dal
Trattato e dal Concordato tra l'Italia e la Santa Sede: e l'art. 1 del Trattato
riafferma appunto che “la sola religione dello Stato è quella Cattolica Apostolica
Romana”. La formulazione dell'art. 7 fu tra le più laboriose e contrastate
dell'Assemblea Costituente, ma dall'esame dei resoconti parlamentari e dal
raffronto con gli altri articoli della Costituzione si desume chiaramente che
il significato da dare alla parola “confessionale” non è quello
deteriore di intolleranza, esclusivista o fazioso: anzi la Repubblica italiana
non fa nessuna discriminazione fra cittadini appartenenti a diverso fedi
religiose (art. 3) e consente a tutti di praticare la propria fede e il proprio
culto purché non contrastino con il buon costume. La caratteristica di
confessionalità attribuita allo stato italiano vuol soltanto significare che
non si tratta di uno stato agnostico in materia religiosa, ma di uno Stato che
riconoscendo una posizione di preminenza e di particolare prestigio alla Chiesa
Cattolica, riassume in sé ed esprime uno dei caratteri peculiari del proprio
popolo;
l) pluripartitico
in quanto consente la formazione e l'attività di più partiti politici e non di uno solo, quello
dominante, come avviene di regola nei regimi dittatoriali. Tale caratteristica,
che si desume dalla generica libertà di associazione sancita nell'art. 18 e dalla
specifica libertà di associazione nei partiti politici sancita dall'art. 49,
risponde sicuramente ad una realtà dello Stato italiano, ma è implicitamente
compresa nell'altra già citata di Stato democratico: parlare di democrazia,
senza pluralità dei partiti, parlare di Stato parlamentare, senza che i
rappresentanti del popolo possano esprimersi attraverso la libera concorrenza
dei metodi e delle idee è come voler costruire un edificio senza le fondamenta;
e perciò l’esistenza in un ordinamento statale di più partiti concorrenti a
formare gli organi rappresentativi è già una sufficiente garanzia di libertà e
di democrazia;
m) internazionalista
non in contrapposizione con la caratteristica di stato nazionale e neppure nel
senso di stato neutrale in politica estera o che nega i valori nazionali e
l'idea di Patria, ma soltanto nel senso chiaramente specificato nell'art. 11
che l'Italia “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli
altri popoli e, come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”:
si tratta cioè di trasportare in campo internazionale il principio unanimemente
acquisito della coscienza individuale di rispetto reciproco delle proprie
libertà e del diritto all'esistenza che non ammette guerre di offesa o di
conquista, il che però non esclude affatto la guerra di difesa a salvaguardia
dell'indipendenza e libertà proprie. E sempre in omaggio al principio della
pacifica convivenza tra i popoli lo stesso art. 11 consente le limitazioni di
sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra
i popoli, limitazioni che debbono essere accettate in condizioni di parità con
gli altri Stati aderenti a un comune ordinamento.
2. IL PRINCIPIO DELLA DIVISIONE DEI POTERI.
Benché di
attuazione relativamente recente, almeno nella sua forma più evoluta, tale
principio era già stato individuato sin dall'antichità della scienza politica,
come la migliore se non l'unica garanzia per il cittadino contro gli arbìtri
dei tiranni e dello stato. Infatti, già Aristotele nel libro VI della sua “Politica”,
faceva cenno alla triplice distinzione tra coloro che fanno le leggi, coloro
che le applicano e i giudici, sia pur riferendosi più alla costituzione dello
stato ateniese che non per enunciare un principio di carattere generale: altri
accenni alla necessità di distinzione troviamo nei filosofi inglesi come Locke.
Ma la formulazione più esatta e rigorosa la troviamo in Montesquieu che nel
trattato "Lo spirito delle leggi" del 1748 scriveva in
proposito: "Quando nella stessa persona o, nel medesimo corpo di
Magistratura la potestà legislativa è unita alla potestà esecutiva, non c'è
libertà, perché c'è da temere che il medesimo monarca, o il medesimo senato
faccia leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente. Ancora non c'è libertà se
la potestà di giudicare non è separata da quella legislativa o dalla potestà
esecutiva. Se fosse congiunta alla potestà legislativa, il potere sulla vita e
la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe
legislatore. Se fosse congiunta alla potestà esecutiva, il giudice avrebbe la
forza di un aggressore. Tutto poi sarebbe perduto, se il medesimo uomo o il
medesimo corpo di nobili o del popolo esercitasse tutte le tre funzioni".
E' facile
comprendere quale fortuna doveva incontrare tale enunciazione teorica in un
periodo di monarchie assolute in cui sostanzialmente le tre funzioni erano
esercitate dal monarca anche se affiancato da corpi e organi che avevano
soltanto compiti consultivi e non potevano dirsi rappresentativi della volontà
popolare: e si spiega come tale principio sia stato poi riportato integralmente
dalla “Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino” nel 1789 e
sia rimasto alla base di tutti gli stati costituzionali sorti per effetto di
rivoluzioni o per pacifica evoluzione dagli stati assoluti.
Nonostante le
critiche anche severe cui il principio della divisione dei poteri è stato in
seguito sottoposto dagli scrittori e studiosi di politica (soprattutto
tedeschi) per il pericolo che essa costituisce per l'unità dello Stato e per le
difficoltà di pratica attuazione nel caso di provvedimenti di competenza di un
potere che sarebbe consigliabile fossero emanati da un altro (esempio tipico è
la discussione e l'approvazione dei bilanci, atti amministrativi, che per la
sua importanza è bene sia lasciato alla competenza del potere legislativo) si
può dire che ancora oggi esso stia alla base delle costituzioni degli stati
moderni: tuttavia nella pratica attuazione si sono dovuti adottare temperamenti
e adattamenti che, pur lasciandone inalterata l'essenza, ha eliminato i
principali motivi di critica togliendo alla formulazione originaria quella
meccanica rigidità che avrebbe veramente potuto costituire un intralcio al
normale e rapido svolgimento dell'azione unitaria dello Stato. D'altro canto la
nostra Costituzione repubblicana (come ogni moderna costituzione) attribuisce
al Capo dello Stato poteri che, per quanto limitati e bene definiti, sono
sufficienti a farne il supremo regolatore e coordinatore tra i vari Organi
costituzionali, senza contare che oltre ai poteri predetti molto può fare in
tal senso il prestigio personale del Presidente della Repubblica: l'azione
unitaria dello Stato è quindi assicurata pur nel rispetto della tradizionale
separazione degli organi, separazione che viene attuata con i temperamenti e le
eccezioni suggerite dall'esperienza ormai secolare di governi democratici. Ma
soprattutto vi è la garanzia della Corte Costituzionale, istituto nuovo di cui
vedremo tra breve composizione ed attribuzioni, che rappresenta il miglior
presidio per tutti i cittadini, costituendo una specie di super controllo
sull'attività del Parlamento al fine di assicurare la costante aderenza delle
leggi da esso approvate ai principi sanciti nella Costituzione.