ç (Torna a Indice)   INTRODUZIONE

 

 

 

 

1.      LA COSTITUZIONE E LE COSTITUZIONI.

 

La Costituzione è la legge fondamentale degli Stati moderni. Quasi tutti ne hanno una, ma questo non vuol dire che tutte le Costituzioni siano ispirate, così com’è nell’aspettativa comune, a ideali di libertà e di giustizia. In verità, a una prima lettura, non c’è forse Costituzione che, a suo modo, non risulti suggestiva. Vi sono persino Stati autoritari che hanno Costituzioni in cui la parola più ricorrente è “libertà”. Ciò dipende da varie circostanze. La prima è che spesso si fa uso della demagogia nel richiamo a nobili ideali. La seconda sta nel fatto che altrettanto spesso accade che una buona Costituzione venga disattesa se non violata o tradita sia dalle leggi che dovrebbero applicarla, sia dal costume e dai metodi cui si ricorre nella vita politica quotidiana. Per cui, in sostanza, alla Costituzione scritta non sempre fa riscontro una Costituzione vivente nella realtà civile, sociale e politica dei popoli.

Tale premessa non vuole però negare valore a quel documento, posto a base dello Stato moderno, che è la Costituzione. Anche se vi sono principi analoghi ricorrenti in Costituzioni pur ispirate, in realtà, a opposte concezioni, un esame attento dei testi costituzionali permette di avvertire differenze profonde e spesso assai significative. Resta il problema del rispetto della Costituzione stessa, affinché alla legge fondamentale dello Stato corrisponda, senza alterazioni, l’insieme di tutte le altre leggi.

Le Costituzioni sono spesso il risultato di un lungo processo storico, così come le rivoluzioni presuppongono un intenso e non breve periodo di maturazione. La Costituzione della Repubblica italiana reca la data del 27 dicembre 1947, ma essa ha dietro una vicenda storica di largo respiro e davanti un lungo periodo di faticosa e controversa attuazione. La storia di come si è potuto giungere alla Costituzione repubblicana è l’argomento del nostro primo anno di lavoro.

            Oggi le Carte costituzionali sono spesso documenti assai complessi e persino sofisticati nella loro formulazione. Ma, inizialmente, lo scopo da realizzare era molto semplice: si trattava di dare un solido fondamento giuridico, riconosciuto ed accettato dal Potere, ai diritti dell’uomo, affinché fossero posti alla base della convivenza civile e della vita dello Stato.

            Le prime Costituzioni sorsero in contrasto con l’assolutismo dei monarchi e con lo scopo di limitarlo attraverso lo strumento di un patto solenne come la Carta costituzionale.

            Nel corso del XVIII secolo l’esperienza inglese e, più tardi, l’affermarsi di un regime repubblicano e democratico negli Stati Uniti d’America, rappresentarono punti di riferimento preziosi per i grandi teorici della sovranità popolare che ispirarono la Rivoluzione francese.

            Caduto Napoleone, parve che la Restaurazione potesse cancellare per sempre diritti e idee liberali: tuttavia, sia pure in modo tormentato, gli eventi dimostrarono che non si poteva tornare indietro.

            Al ritorno delle monarchie assolute fece contrasto la spinta delle nuove classi borghesi verso ordinamenti liberali che soltanto un solenne patto tra governanti e governati poteva garantire. Per cui l’ideale della Costituzione animò letteratura e moti politici, dando un’impronta caratteristica a tutte le rivoluzioni della prima metà dell’Ottocento, sia in Italia che in Europa.

            Forme embrionali di ordinamenti ispirati alle libertà costituzionali erano sorte, sullo stampo del modello francese, durante il periodo rivoluzionario e nella fase napoleonica. Le Repubbliche “giacobine” ebbero una rapida eclissi, ma le idee liberali e i concetti di sovranità popolare non potevano essere cancellati dalla coscienza delle classi emergenti, anche se erano state abolite le Costituzioni, napoleoniche o francesizzanti sulle quali quelle idee si fondavano. D’altra parte, le stesse restaurate monarchie non potevano più considerare lo Stato con le mentalità di un tempo, perché profondamente mutata era la stessa società civile.

            Le strutture retrograde del vecchio regime assolutistico potevano essere resuscitate, ma il tentativo di imporle rischiava di soffocare anche quelle forme minime di funzionalità dello Stato di cui gli stessi sovrani avevano bisogno. Fu così che vari monarchi, in Italia e altrove, cominciarono a non escludere la possibilità di un patto fra governanti e governati, ferma restando tutta una serie di irrinunciabili prerogative regie. Si venne così rafforzando la prospettiva politica dei liberali moderati, favorevoli a Costituzioni che trasformassero le istituzioni della monarchia assoluta in monarchia temperata o costituzionale, mentre agli oltranzismi dei fautori dell’ancien régime si contrapponevano le pur caute aperture dei più illuminati consiglieri della Corona. Sul moto riformatore influivano anche le istanze dei democratici più avanzati, benché minoranza, fautori della repubblica, da conseguirsi con sollevazioni e sommosse popolari, e di nuovo un regime politico le cui forme sarebbero state stabilite da un’apposita Assemblea Costituente eletta a suffragio universale.

 

2.      Il MODELLO FRANCESE: LE REPUBBLICHE CISALPINE E L’IDEA DI LIBERTA’.

Durante gli anni della Rivoluzione il “modello francese” aveva attratto la borghesia illuminata, da Milano a Napoli, per cui cominciava a farsi strada l'idea italiana, il nome stesso della nazione “Italia” legato ai nuovi ordinamenti, nati dalla Rivoluzione francese. Era un nome cui patrioti e pensatori davano un contenuto, vale a dire un ordinamento ispirato ai principi della libertà e basato su istituzioni rappresentative, un fatto del tutto nuovo nella storia italiana. Al quadro di queste istituzioni si accompagnava l’auspicio di un parallelo sviluppo degli ordinamenti civili con il superamento delle concezioni giuridiche feudali che inceppavano lo sviluppo del commercio, dell’industria e di un’agricoltura moderna, soffocando nello stesso tempo le aspirazioni dei ceti intellettuali e professionali. Era questa la “filosofia politica” che animava le cosiddette Repubbliche Cisalpine o giacobine (1797-1802).

            Dalla Repubblica Cisalpina vera e propria a quella Partenopea venne l’impulso a ordinamenti la cui memoria non poté essere distrutta nemmeno dal pesante periodo della Restaurazione che seguì al Congresso di Vienna con il ritorno dei vecchi sovrani e del regime assolutistico.

            Con le Repubbliche Cisalpine erano state poste le premesse al sorgere di istituzioni moderne; c’erano stati accentuati dibattiti, erano circolate idee nuove. Sebbene tutto questo fosse dovuto al “modello francese”, erano i concetti di libertà e di rappresentanza politica ad essere per la prima volta affermati.

A molti le Costituzioni di quelle Repubbliche possono apparire astratte, ma in realtà riflettevano non solo i principi della Rivoluzione francese e dell’età napoleonica, ma indicavano le aspirazioni della borghesia italiana ed europea agli inizi dell’Ottocento. Non c’è dubbio che esse recavano indicazioni (ad esempio sulla libertà di stampa e sugli ordinamenti rappresentativi) che in seguito avrebbero avuto una funzione importante nella vicenda costituzionale e politica italiana. D’altronde da anni, con il diffondersi della cultura illuministica, la critica all’assolutismo monarchico animava il pensiero politico italiano. Libertà economica e libertà politica apparivano legate ad uno stesso destino.

            Da Alfieri era venuto l’invito a respingere ogni dogmatismo politico e ogni forma di tirannia. Poco importava che il principe fosse ereditario o elettivo, usurpatore o legittimo: il Potere ne faceva un tiranno. Nella concezione di Alfieri, libertaria più che liberale, era il Potere in sé ad essere sottoposto a fiera critica.

            Ma un potere doveva pur esserci. Prima della rivoluzione francese esso s’era espresso nell’assolutismo dei sovrani che ne legittimavano le origini con il diritto ereditario al trono. Con l’illuminismo invece il potere venne visto nei termini di libertà. Ma quale libertà, e come garantirla?

Il discorso portava al grande tema delle istituzioni e della forma dello Stato (nazionale o federativo, repubblica o monarchia) che appassionava protagonisti del pensiero italiano, da Melchiorre Gioja a Gian Domenico Romagnosi. Da Gioja s’era avuta, netta, l’opzione a favore di una repubblica unitaria (“una sola repubblica indivisibile”); mentre Romagnosi era attratto soprattutto dall’idea di una monarchia temperata e articolata in molteplici poteri in modo che uno facesse da contrappeso all’altro. Analogamente il grande tema degli ordinamenti da dare alla nazione italiana, con la decisa scelta per una Costituzione repubblicana a base di una repubblica unitaria, appassionava Carlo Botta: il quale, secondo una moda del tempo, giudicava gli ordinamenti politici come capaci addirittura di assicurare la felicità umana.

            Di tutt’altro si sarebbe trattato con l’ulteriore corso degli eventi, che con il Congresso di Vienna e la Restaurazione avrebbero cancellato repubbliche e ordinamenti e persino quel nome “Italia” cui si erano ispirati tanti scrittori. Ma le idee, anche quando subiscono brusche sconfitte, se sono legate ai tempi o ne anticipano il corso, non restano ferme e proseguono il loro cammino.

            Sicché non andò perduta l’esperienza politica delle Repubbliche italiane dell’età rivoluzionaria, anche se la loro vita s’iniziò e si concluse nel fuggevole arco di pochi anni.

 

3.      VITTORIA E CRISI DELL’ASSOLUTISMO: LE COSTITUZIONI DEL RISORGIMENTO.

Dopo la sconfitta di Napoleone e il Congresso di Vienna i grandi Stati europei apparivano allineati sulla stessa filosofia politica che li riportava a un deciso rigetto di quelle istituzioni che la Rivoluzione francese aveva imposto con la forza delle idee e delle armi. Nel 1815 si ebbe un ritorno pressoché generale ai principi dell’assolutismo: l’Europa vincente era monarchica e severamente retrograda. In Italia tornò, sotto il vigile controllo dell’Austria, l’antico regime monarchico feudale, appena attutito dal paternalismo di qualche sovrano.

            Ma erano tempi inquieti e di grandi trasformazioni culturali, economiche e sociali. L’assolutismo venne presto in contrasto con le crescenti esigenze di sviluppo della borghesia che aspirava a partecipare al potere e al governo della società e dello Stato.

A partire dal biennio 1820-21 scoppiarono moti costituzionali e insurrezioni liberali, e persino rivolte a sfondo egualitario e socialista, che rimisero in discussione, sia pure senza successo, quei regimi interni che erano stati sanciti dal Congresso antinapoleonico di Vienna. Nel 1830 con la vittoria della rivoluzione liberale in Francia e in Belgio l’Europa apparve divisa in due grandi blocchi: da una parte gli stati costituzionali (principalmente l’Inghilterra, la Francia e il Belgio), dall’altra quelli assolutisti (l’Impero asburgico, la Prussia e la Russia degli zar).

In Italia, che continuò a subire fino al 1848 l’egemonia politica e ideologica dell’Austria, si determinarono tra i patrioti due tendenze di fondo: una, più moderata, che appariva ispirata dalla speranza di poter trasformare, d’intesa con i sovrani, le monarchie assolute italiane in Stati costituzionali secondo il “modello” dei più evoluti regimi occidentali; l’altra, più coraggiosamente democratica, che postulava un ribaltamento radicale della situazione: una rivoluzione popolare che abbattesse gli assolutismi e unificasse la nazione, dando vita a un nuovo regime politico basato sulla repubblica.

            Esitanti, incerti ed esposti alle pressioni più contraddittorie erano i sovrani dei piccoli Stati italiani e, a Roma, il Papa. Nel 1848, per evitare le “rivoluzioni”, i principi italiani concessero le Costituzioni, e, da queste, derivarono le prime assemblee parlamentari del Risorgimento, ognuna delle quali ebbe una sua storia. Conclusosi il periodo delle insurrezioni, solo a Torino il regime parlamentare sopravvisse alle sconfitte del 1849 e fu un punto di riferimento politico e costituzionale per tutti gli Italiani fino all’unità, mentre le altre assemblee del Risorgimento furono tutte sciolte con la forza. L’ultima ad essere soffocata con le armi, e la più gloriosa, fu la Costituente della Repubblica Romana, l’unica ad essere stata eletta a suffragio universale. In generale, tutti i Parlamenti di quel periodo ebbero origine da un diritto di voto basato sul censo e, al più, sull’istruzione. Ma si trattò comunque di assemblee dalla vita significativa.

            Una linea comune lega i protagonisti di quelle esperienze costituzionali e parlamentari; si sosteneva che ogni potere, per essere legittimo, doveva provenire dal popolo. Un profondo impulso laico animava le nuove speranze costituzionali, ma anche un fervore di fede religiosa: la libertà, talora, veniva presentata come il principale dono che da Dio poteva essere dato agli esseri umani.

            Si parlava di rifondare interamente lo Stato; si partiva dalla constatazione della mancanza di leggi e procedure adeguate ai tempi; si voleva una società che non fosse soffocata da manomorte o da altre vestigia feudali. Appariva antistorico che all’interno d’uno stesso stato vigessero unità di misura (per i liquidi, per i solidi, per il denaro) diverse fra di loro, in modo da rendere più difficoltosi che mai i commerci e le industrie. Molti auspicavano che gli intralci al commercio venissero eliminati con coraggiose riforme.

            Si chiedeva che i governi potessero reggersi non solo sulla fiducia del re ma su quella del Parlamento. Si parlava, già allora, di voto di fiducia, anche se né le Costituzioni degli altri Stati italiani né quella del Regno Sardo prevedevano un Governo parlamentare. Si insisteva sulla separazione del potere politico da quello religioso. Si sentiva l’esigenza di incrementare l’istruzione popolare, perché l’analfabetismo era considerato come il peggior nemico della libertà. Si propiziavano leggi a favore delle classi povere, come l’abolizione dell’imposta sul macinato e di quella sul sale.

            Si sarebbe voluto legare di più il popolo alle nuove istituzioni. C’era bisogno di combattenti, e, soprattutto, si voleva evitare che le classi umili potessero diventare elemento di manovra delle forze reazionarie. Era un periodo in cui s’agitavano impulsi diversi. Di diritto al lavoro parlavano improvvisati tribuni, a Napoli e a Roma. In vari Parlamenti si poneva mano a leggi per l’abolizione dei pesanti balzelli che gravavano sulle masse popolari. La riforma fiscale, presentata da Michele Amari a Palermo, si basava sull’imposta fondiaria e proponeva la riduzione o l’abolizione del macinato. A Roma, alla Costituente, si giunse alla presentazione di una vera e propria legge agraria in favore dei contadini poveri.

     Nate da Statuti che generalmente concepivano le nuove libertà come gentili concessioni del sovrano, le assemblee del Risorgimento s’erano andate rapidamente conquistando nuovi spazi, anticipando quel regime parlamentare che è basato sul rapporto di fiducia politica fra il potere esecutivo e quello legislativo, per cui più forte si fece la diffidenza dei vari re, mentre restavano non soddisfatte le aspirazioni dei democratici più avanzati. Vero è, dunque, come osservano autorevoli storici, che gli Statuti italiani erano certamente insufficienti per l'aspetto formale, ma la forza degli avvenimenti stava dando ad essi un carattere sempre più avanzato.

L'entusiasmo stesso per i nuovi ordinamenti bastò a spaventare le vecchie classi dirigenti, mentre i liberali più moderati si allarmarono per la presenza a Roma di Mazzini e delle sue idee repubblicane. Si sentirono minacciati gli inte­ressi conservatori non solo di tanti sovrani italiani ma di mezza Europa.

      Di queste paure l'Austria seppe approfittare per riaffermare la propria egemonia in Italia, restaurando per la seconda volta con la forza i principi italiani. Dopo la vittoria austriaca del 1849, l'unico sovrano che non ripudiò la Costitu­zione fu Vittorio Emanuele Il di Savoia.

Il giovane re seppe abilmente mantenere il regime parlamentare introdotto dal padre Carlo Alberto con lo Statuto Albertino, legando le sorti della dinastia a questa Carta costituzionale che, dopo l'Unità, sarebbe diventata il fondamento della vita politica del Regno d'Italia per circa novant'anni.

 

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